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POLITICA

La riforma delle intercettazioni non può attendere

La condanna di Berlusconi per il caso Unipol riporta alla ribalta le intercettazioni, da anni impiegate come arma di ricatto e di lotta politica. È ora di porre rimedio alla privacy e alla dignità delle persone coinvolte.

Editoriali 05_06_2013
Intercettazioni

La sentenza Unipol, pronunciata dalla quarta sezione penale del Tribunale di Milano, nella quale l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è stato condannato a un anno di reclusione per “concorso morale” in rivelazione di segreto d’ufficio, non può non alimentare i consueti sospetti di faziosità di chi l’ha pronunciata. Stando alle 90 pagine di motivazione di quel verdetto, l’ex premier non avrebbe posto in essere alcuna condotta specifica ma avrebbe rafforzato il proposito del fratello Paolo, proprietario ed editore del Giornale, di pubblicare la famosa telefonata da Fassino e Consorte. Peccato che colui che ha consegnato l’intercettazione abbia sempre affermato che l’allora Presidente del Consiglio non l’aveva mai ascoltata. Sembra una sentenza basata sul principio del “cui prodest”, senza alcuna logica giuridica. Ovviamente bisognerà attendere la pronuncia d’appello e la Cassazione per poter trarre conclusioni definitive. Tuttavia, qualche considerazione la si può svolgere fin da ora.

Fa specie che si parli di segreto d’ufficio violato, quando nel nostro Paese da anni esso viene preservato a singhiozzo, mentre lo strumento delle intercettazioni, più che essere utilizzato come strumento di indagine, viene impiegato come arma di ricatto e di lotta politica. Non può non tornare alla mente l’immagine biblica della “trave” e della “pagliuzza”, se ci si concentra su una telefonata diffusa incautamente, anziché sulle inquietanti trame oscure svelate da quella telefonata (la scalata di Unipol a Bnl).  E non si può non riflettere sull’utilizzo di intercettazioni nel nostro Paese.
Siamo proprio sicuri che le telefonate da “ascoltare” e quelle da “pubblicare” vengano scelte sempre e solo secondo le prescrizioni del diritto e non per orientare in un senso o nell’altro l’opinione pubblica dandole in pasto spezzoni di verità funzionali agli interessi di chi li divulga? Ogni anno si eseguono in Italia circa 181 milioni di intercettazioni e il numero di utenze messe sotto controllo è cresciuto del 22,6% negli ultimi cinque anni. Sono dati diffusi mesi fa dall’Eurispes e che documentano un’innegabile “bulimia intercettatoria”, soprattutto se rapportata alla realtà di altri Stati. Tra il 2008 e il 2010 la spesa per intercettazioni è cresciuta del 6,8%, passando da 266.165.056 a 284.449.782 di euro. Ma al di là degli abusi nell’utilizzo di uno strumento sicuramente utile per le indagini e che spesso ha portato a smascherare trame occulte di corruzione e malaffare, si pone il problema della pubblicazione sui media di brogliacci di telefonate riguardanti spesso soggetti non indagati, quando non le più alte cariche dello Stato (Il caso Napolitano è emblematico).

Da noi continuano ad uscire sui giornali fiumi di intercettazioni riguardanti la vita privata di soggetti pubblici, senza che questi ultimi si vergognino delle proprie disarmanti nefandezze ma anche nel silenzio assordante di authorities e organismi disciplinari, che invece dovrebbero denunciare alcune palesi violazioni del diritto di cronaca. Un conto sono le conversazioni che provano reati e che consentono all’opinione pubblica di acquisire consapevolezza sui fatti, altra cosa sono le confidenze che si fanno al telefono e che non dovrebbero per nessuna ragione essere pubblicate poiché, pur nutrendo la curiosità morbosa di qualche lettore, non incidono in alcun modo sulla completezza della notizia, non aggiungendo particolari essenziali né penalmente rilevanti.

Per garantire il diritto alla privacy e alla dignità delle persone coinvolte e, in alcuni casi, anche il prestigio e l’onore dell’istituzione, bisognerebbe prima concludere le indagini e divulgare i contenuti delle conversazioni  registrate solo se contenessero chiari indizi di reato. E’ auspicabile che una nuova legge sulle intercettazioni, senza impedire alla magistratura di usarle per smascherare violazioni di legge, ne regoli meglio la divulgazione attraverso la stampa e gli altri mezzi d’informazione. Una normativa sulle intercettazioni, che ne regolamenti l’uso e soprattutto la pubblicazione, dovrebbe stare a cuore a tutte le forze politiche attente ad un sano bilanciamento tra diritto all’informazione e tutela della privacy e della dignità umana. E dovrebbe stare ancor più a cuore ad un mondo dell’editoria e delle comunicazioni italiano con scarsissimi margini di autonomia e invischiato in grumi di potere che ne minano la credibilità.

Nel disegno di legge Alfano sulle intercettazioni, incagliatosi nelle maglie del Parlamento durante la precedente legislatura, è previsto il carcere da 6 mesi a 3 anni per i giornalisti che pubblicano stralci di conversazioni telefoniche irrilevanti per le indagini. E’ la stessa pena attualmente prevista per i giornalisti che pubblicano intercettazioni da distruggere o che coinvolgono persone estranee ai fatti. Punire con il carcere i giornalisti non è la soluzione e appare una misura eccessiva. Una regolamentazione, però, è necessaria. Anzitutto bisogna vigilare affinchè le intercettazioni coperte da segreto non escano dalle Procure. Sarebbe opportuno modulare le pene per chi pubblica le intercettazioni non rilevanti sulla base del danno che la divulgazione di quelle telefonate provoca alla dignità, alla privacy e all’onore delle persone coinvolte. Quando la pubblicazione delle intercettazioni consente di raccontare e smascherare agli occhi dell’opinione pubblica i reati commessi da un personaggio pubblico, non esiste alcun motivo per impedirla. Viceversa, quando i contenuti delle intercettazioni riguardano particolari non essenziali alla completezza del racconto dei fatti e assolutamente marginali rispetto alle indagini, il giornalista dovrebbe astenersi dal pubblicarli. Multe esemplari e sanzioni disciplinari potrebbero rappresentare un efficace deterrente. Un giurì per la correttezza dell’informazione, composto da magistrati, giornalisti ed esperti potrebbe vigilare sul rispetto di tali norme da parte dei giornalisti, impedire il bavaglio all’informazione ma anche le gravi violazioni della privacy che la pubblicazione di certe intercettazioni provoca.

 

*docente di diritto dell'informazione all'Università Cattolica di Milano