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LIBERTÀ CERCASI

La prima piaga della scuola? Il centralismo statalista

I dati del rapporto Ocse-Pisa sulle competenze in lettura, matematica e scienze dipingono un quadro fosco della scuola italiana. Il primo problema da risolvere è lo statalismo, che si accompagna alla burocrazia asfissiante e ai tentativi dei ministri di turno di usare la scuola a fini ideologici. Serve valorizzare paritarie e parentali, per una vera libertà di scelta delle famiglie.

Attualità 07_12_2019

È sorprendente la mole di reazioni che ha suscitato la pubblicazione dei dati internazionali Ocse-Pisa sulle competenze in lettura, matematica e scienze, da cui la scuola italiana esce con le ossa rotte. Il malato, si sapeva, è terminale. Perché, allora, sorprendersi a tal punto?

L’abbiamo scritto e ripetuto ormai molte volte: la scuola statale italiana è tenuta in vita con accanimento terapeutico solo dalla caparbia volontà di un pugno di volenterosi docenti e dirigenti scolastici, dagli irrinunciabili interessi corporativi ed economico-politici di alcuni sindacati e da uno spesso strato di burocrazia statalista, che ha mummificato il corpo ancora prima del decesso… Tuttavia, anche se il tema è già stato ben introdotto su questa testata da Luca Volontè (clicca qui) e su molti altri giornali, vale la pena forse ripresentare almeno sinteticamente i principali dati emersi dall’indagine.

Hanno preso parte a questa edizione della ricerca internazionale Ocse-Pisa ben 79 Paesi, rappresentati complessivamente da 600.000 quindicenni dei diversi sistemi scolastici locali. In lettura (“capacità degli studenti di comprendere, utilizzare, valutare, riflettere e impegnarsi con i testi per raggiungere i propri obiettivi, sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità e partecipare alla società”) gli studenti italiani hanno ottenuto complessivamente un punteggio di 476 contro la media Ocse di 487, collocandosi tra il 23° e il 29° posto, allo stesso livello di Lettonia, Lituania, Svizzera, Ungheria, Islanda e Israele. E se in matematica i nostri ragazzi hanno fatto registrare qualche miglioramento e paiono ora in linea con la media Ocse (487 punti contro 489), in scienze è buio pesto (468 contro 489).

L’indagine riporta sotto i riflettori anche il tradizionale problema di un’Italia che marcia a due velocità: al Nord gli studenti hanno ottenuto punteggi al di sopra della media Ocse (in matematica meglio anche della Finlandia), mentre al Sud i risultati sono stati inferiori persino a Ucraina, Turchia e Grecia e più di uno studente su tre non raggiunge nemmeno la sufficienza in lettura. A fronte di una media Ocse di 487 punti, infatti, le performance degli studenti dei licei italiani in lettura si situano al livello di Paesi al di sotto della media (458 punti) e quelli dei professionali - in cui sei studenti su 10 non raggiungono la sufficienza nemmeno in scienze e matematica - arrivano ai livelli di Thailandia e Kazakistan (395 punti).

Altro “fiore all’occhiello”: solo il 5% dei quindicenni italiani pare sia in grado di comprendere un testo e valutarne l’attendibilità, mentre negli altri Paesi la media si aggira intorno al 9-10%. Sempre pochi, ma comunque il doppio. Infine, se in media nei Paesi Ocse circa uno studente su cinque (il 21%) ha dichiarato di aver saltato una giornata di scuola nelle due settimane precedenti il test, in Italia la percentuale di assenteisti è quasi tripla: più della metà dei ragazzi (il 57%) ha perso almeno un giorno di scuola.

Che dire? Le analisi, in questi giorni, si sono sprecate e hanno sottolineato una varietà di aspetti critici che contribuiscono alla débâcle: la crisi economica, la fragilità delle famiglie, la demotivazione dei docenti, lo scarso investimento pubblico sull’istruzione, l’insipienza dei politici e in particolare di certi ministri del Miur (al riguardo, si legga l’articolo di Caterina Giojelli su Tempi.it), eccetera. Persino l’attuale ministro dell’Istruzione è stato costretto a riconoscere che “sono dati che ci preoccupano, non perché siano diversi da quelli di un anno fa ma perché sono molto peggio rispetto a quelli di 20 anni fa” e che “ci rivelano un’Italia in declino costante”.

Sono tutte considerazioni e analisi sacrosante; però, c’è una piaga da cui partono diverse cancrene e che quindi dovrebbe essere curata prima delle altre: il centralismo statalista. Se è vero che è azzardato e probabilmente eccessivo attribuire questi risultati sconfortanti a una motivazione univoca, e di conseguenza risulterebbe irrealistico pensare a una sola cura che possa risolvere magicamente ogni problema, è altrettanto vero che il centralismo burocratico ha fatto danni enormi alla scuola. Pertanto, se si volesse davvero provare a sovvertire questo trend, si dovrebbe partire con una cura a base di massicce iniezioni di autonomia e libertà, sia di gestione per le istituzioni scolastiche sia di scelta per le famiglie, restituendo la scuola a quelle formazioni sociali che hanno davvero a cuore l’educazione dei giovani e che pertanto possono trasmettere quell’entusiasmo che sembra ormai scomparso (si legga al riguardo l’articolo del Messaggero) sia nei discenti che nei docenti.

Come scrive giustamente Elena Ugolini (ex sottosegretario Miur e Preside del liceo paritario Malpighi di Bologna) commentando i risultati dell’indagine, “la nostra scuola non aiuta a crescere” e  “la qualità della didattica e il clima che si respira a scuola possono fare la differenza a parità di contesto socio economico, di indirizzo di studi e di area geografica...”. La qualità della didattica e un clima diverso, più coinvolgente ed entusiasmante, tuttavia, possono essere ottenuti - come ci documentano le esperienze di altri Paesi e, almeno in parte, le nostre scuole paritarie e parentali - solo in un contesto di maggiore libertà e responsabilità, in cui le persone e le aggregazioni sociali tornino a sentirsi protagoniste e responsabili.

La macchinosità del nostro pachidermico sistema nazionale di istruzione, la sua asfissiante burocrazia, la sindacalizzazione esasperata che ha trasformato la scuola in un ammortizzatore sociale, la pretesa di usare la scuola per scopi politici di consenso e di controllo sociale, il tentativo da parte di ogni governo e ministro del Miur in carica di trasformarla in una creatura a immagine e somiglianza delle proprie multiformi convinzioni ideologiche, nonché molte altre aberrazioni che non stiamo ora ad elencare, unitamente ad altri fattori esterni alla scuola di natura socio-culturale (relativismo, edonismo, nichilismo, calo demografico, demolizione dell’istituto familiare, etc.) non potevano portare ad altro che a questi risultati devastanti.

Ora, se vogliamo smettere di lamentarci e far risorgere davvero il nostro sistema scolastico, è necessario avere il coraggio di mettere mano a una riforma radicale all’insegna della libertà. Non c’è altra strada. Diversamente, almeno si eviti di stracciarsi le vesti ogni volta che saranno pubblicati i risultati delle indagini internazionali.