La Passione del Signore (VI parte) – Il testo del video
Ogni peccato comporta una pena, come conseguenza di una giustizia violata. La Passione ha liberato l’uomo dai castighi conseguenti al peccato in due modi: ma l’uomo, per godere di questi effetti, deve conformarsi a Cristo. Passione e Ascensione.

Proseguiamo il commento della quæstio 49 della III parte della Summa, di cui abbiamo commentato i primi due articoli (vedi qui). Se ricordate, ci siamo soffermati sui primi due effetti della passione e morte del Signore – cioè la liberazione dai peccati e la liberazione dalla potestà del maligno – e abbiamo visto anche la loro intima connessione. Il maligno ha potere sull’uomo precisamente per il peccato dell’uomo, perché in sostanza possiamo dire che l’uomo peccando si distoglie volontariamente da Dio e, distogliendosi dalla luce di Dio, entra nel regno delle tenebre e quindi in qualche modo si sottomette al potere delle tenebre.
Questo è molto importante tenerlo presente perché a volte abbiamo una visione del peccato un po’ superficiale, forse un po’ moralista, cioè come di qualcosa che non è bene fare, non è educato fare, ma il peccato in realtà ha una dimensione ontologica enorme. Se noi potessimo riflettere un po’ di più su questo aspetto, comprenderemmo la sua gravità, perché il peccato dell’uomo trasferisce l’uomo stesso dalla custodia di Dio, dal regno della luce, dalla benedizione divina al regno del maligno, delle tenebre. E questo non perché Dio si sia indispettito di un nostro atto, ma perché il peccato è un atto della volontà umana, che dunque l’uomo fa volontariamente: anche se l’uomo non pensa questo, di fatto attraverso l’azione moralmente riprovevole, l’azione non gradita a Dio, l’azione che è contraria ai comandamenti divini e quindi al bene, l’uomo opera questo tipo di passaggio.
Vediamo l’art. 3, nel quale san Tommaso si domanda se la passione di Cristo abbia affrancato l’uomo dai castighi del peccato. Dunque, art. 1: la domanda è se la passione di Cristo abbia liberato l’uomo dal peccato; art. 2, se l’abbia liberato dal potere del demonio, che è la conseguenza del primo; art. 3, altra conseguenza: se Dio abbia liberato l’uomo dai castighi conseguenti al peccato.
Ora, nel corpo del testo, san Tommaso dice che «la passione di Cristo ci ha affrancati dal reato della pena in due modi. Primo, direttamente, cioè, per il fatto che essa fu una soddisfazione proporzionata e sovrabbondante per i peccati di tutto il genere umano. Ora, una volta data l’adeguata soddisfazione viene a cessare l’esigenza del castigo» (III, q. 49, a. 3). Qui tornano concetti che abbiamo già incontrato e che devono essere ribaditi, altrimenti non comprendiamo perché la passione di Cristo liberi dal peccato e dalla pena del peccato.
Anzitutto, è divenuta piuttosto lontana dalla nostra sensibilità la consapevolezza che ogni peccato comporta una pena, quelli che si chiamano i castighi del peccato. Noi reagiremmo come se fosse una concezione di Dio lontana da quella che ci ha rivelato Gesù Cristo, lontana dal Nuovo Testamento, ma non è così. Il peccato, cioè ogni azione riprovevole fatta dall’uomo, contraria ai comandamenti di Dio, crea un disordine. E il disordine si ripercuote sulla vita dell’uomo che compie il male, così come si ripercuote in fondo su tutte le membra della Chiesa e anche su tutti gli uomini. La questione non è che io compio un’azione cattiva, il babbo e la mamma si arrabbiano e mi mettono in castigo: cosa assolutamente lodevole e molto educativa. La questione è che intrinsecamente il peccato crea un disordine e questo disordine comporta per l’uomo una pena da soffrire.
Facciamo un esempio banalissimo per capirci. Se anziché mangiare una fetta di Sacher, la famosa torta al cioccolato sudtirolese, mangio una Sacher intera, oltre ad aver commesso chiaramente una colpa – un peccato di gola – avrò una pena da sopportare, perché avrò mal di pancia, mi si alzerà la glicemia, eccetera, a seconda di come sono fatto. Non ha senso che me la prenda con Dio perché mi ha castigato, ma nel male che io compio, proprio perché introduco un disordine, provoco delle pene su di me. Ma queste pene il Signore non le toglie, le permette, precisamente perché, in questa vita, sono pene che possono essere medicinali, cioè ci possono aiutare a stare lontani dal male, ci possono aiutare a migliorare nel bene e, in quanto tali, se vengono accolte, si possono anche trasformare in meriti.
È un fatto che la pena è conseguenza di una giustizia violata. E dobbiamo recuperare questo senso, perché noi viviamo in una società che per certi versi è giustizialista, ma per altri versi è assolutrice di ogni cosa, per cui quando succede qualcosa non è mai colpa di nessuno: nessuno deve espiare la propria colpa e non ci deve essere mai una pena, e non si capisce per quale ragione. Questa non è certamente la prospettiva cristiana, non è la prospettiva evangelica, nonostante molti si ostinino a dire il contrario.
Dunque, la passione di Cristo ci affranca dal reato della pena perché ha soddisfatto, come dice Tommaso, in modo proporzionato e sovrabbondante. Detto fuor di metafora: ha pagato Lui. Tra poco vedremo la nostra parte.
«Secondo, indirettamente: cioè, per il fatto che la passione di Cristo causa la remissione del peccato, su cui si fonda il reato o debito della pena» (ibidem). Dunque, direttamente ci libera dal reato della pena, perché Cristo ha soddisfatto per noi (rimando alla catechesi in cui abbiamo parlato anche del senso della soddisfazione dei peccati); e indirettamente perché, rimettendo il peccato, rimette la causa che ha provocato la pena.
Nella risposta alla seconda obiezione, san Tommaso spiega qual è il posto della penitenza nella vita cristiana. «Per conseguire gli effetti della vita di Cristo è necessario che ci conformiamo o configuriamo a lui» (III, q. 49, a. 3, ad 2). L’abbiamo detto più volte: la conformazione a Cristo, la configurazione a Cristo, l’immissione in Cristo, l’essere membra del suo corpo – configurandoci a Lui, che ne è il capo – è ciò che ci permette di conseguire gli effetti della sua passione. Ora, dato questo principio, san Tommaso fa un altro passaggio: «Poiché, come dice san Pietro, “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati”, il cristiano non può essere configurato una seconda volta alla morte di Cristo con il sacramento del Battesimo» (ibidem). Prima di proseguire, è necessario un breve commento a questa parte. Noi dimentichiamo che il battesimo ci conforma a Cristo, ma soprattutto ci conforma alla morte di Cristo; noi nel battesimo – lo si comprendeva nel modo più evidente con il segno del battesimo a immersione – veniamo immersi nella morte di Cristo o, come dice san Paolo, veniamo sepolti con Cristo, per risorgere con Lui (cf. Rm 6, 4). Dunque, noi veniamo immersi nella morte di Cristo perché la morte di Cristo è ciò che ha ottenuto la nostra salvezza, la nostra redenzione. E questo avviene nel battesimo.
Ma il battesimo, come sappiamo, imprime il carattere e non è un sacramento ripetibile. Ora, san Tommaso dice: «Perciò coloro che peccano dopo il Battesimo devono conformarsi a Cristo sofferente mediante alcune penalità o sofferenze che essi devono sopportare, in misura però molto minore di quanto sarebbe richiesto dal peccato, perché vi coopera la soddisfazione di Cristo» (ibidem). Qui abbiamo il grande senso della penitenza cristiana: quello che ci capita nella vita e ci capita come penalità o sofferenza – una malattia, una sofferenza morale, una perdita, un disagio economico, una fatica, un’incomprensione, o anche le penitenze che ci vengono imposte dalla Chiesa cattolica, come il digiuno, l’astinenza, oppure quelle che noi stessi offriamo in più, i cosiddetti “fioretti”, cioè proprio la penitenza che dovrebbe essere una costante della vita cristiana – a cosa serve? Serve a riconformarci a Cristo, dal momento che noi con il peccato ci distacchiamo da questa conformità: in modo radicale, con il peccato grave; in modo meno radicale ma pur sempre con delle deformità, con il peccato veniale. Come recupero, come restauro eventualmente questa conformazione? Attraverso la penitenza.
Ora, è significativo che anche il sacramento si chiami sacramento della Penitenza o della Riconciliazione, perché è il sacramento che appunto ci riconforma a Cristo, ma che anche richiede all’uomo una penitenza da offrire. Una penitenza minima, una penitenza che è un segno in realtà di quelle penitenze che Dio stesso ci manda nella vita, permette che ci raggiungano. Immaginiamocele come dei colpi di spugna per pulire, per recuperare l’immagine. Tutto questo è ciò che Dio permette per riconfigurarci a Cristo e dunque ricevere gli effetti della sua passione.
San Tommaso ci dice che la penitenza che a noi viene chiesta – da accogliere, quando ci viene chiesta, o da offrire – è in misura molto minore di quanto sarebbe richiesta dal peccato, perché coopera la soddisfazione di Cristo. Dunque, se noi guardassimo le cose dal punto di vista di Dio, se guardassimo i nostri patimenti, anche se talvolta ci appaiono veramente pesanti e grandi, noi comprenderemmo che in realtà non sono proporzionati a quello che noi provochiamo quando volgiamo le spalle a Dio, quando facciamo di testa nostra rifiutando in qualche modo le disposizioni divine. E spesso noi non abbiamo questa misura. Noi abbiamo la misura della nostra sofferenza e, dunque, spesso ci sembra troppa. Ci sono sofferenze veramente grandi. Eppure, san Tommaso ci dice che sono comunque in misura minore rispetto a quello che sarebbe chiesto, ma in nostro soccorso viene la soddisfazione di Cristo, quello che Cristo ha già pagato, ha già offerto e che la Chiesa applica alle anime.
Qui, si potrebbe anche aprire il grande capitolo delle indulgenze, che entrano proprio in questa logica della pena conseguente alla colpa. Cioè, l’indulgenza non rimette la colpa, che è rimessa con il sacramento della Penitenza, mentre rimette la pena conseguente alle nostre colpe. Vedete com’è denso questo art. 3.
Adesso vediamo l’art. 4 e l’art. 5 (tralasciamo l’art. 6, a cui in fondo avevamo già fatto un accenno) che trattano di altre due tematiche: la riconciliazione con Dio, cioè come la passione di Cristo ci ha riconciliati con Dio; e come la passione di Cristo ci ha aperto le porte del cielo. Dunque: remissione della colpa, liberazione dal potere del demonio, liberazione dalla pena, nel senso che abbiamo detto, riconciliazione con Dio e apertura delle porte del cielo.
Perché – ed è il tema appunto dell’art. 4 – parliamo di riconciliazione con Dio e in particolare della passione di Cristo che ci ha riconciliati con Dio? San Tommaso spiega che la passione ci ha riconciliati con Dio per due ragioni: «Primo, perché cancella il peccato dal quale gli uomini sono resi nemici di Dio, come si legge nella Scrittura: “Sono ugualmente in odio a Dio l’empio e la sua empietà” (Sap 14, 9); “Tu detesti chi fa il male” (Sal 5, 7)» (III, q. 49, a. 4). Questa già è un’affermazione forte che scuote un po’ la nostra sensibilità, perché potremmo chiederci: com’è possibile che Dio in qualche modo abbia un’inimicizia con gli uomini e addirittura odi l’empio e la sua empietà? Noi spesso diciamo che Dio odia il peccato, ma non il peccatore. Bisogna comprendere bene questo passo: il peccato non è solamente un’azione esterna all’uomo, non è qualcosa di accidentale, del tipo “urto qualcosa in casa, faccio cadere un vaso e lo rompo”. Non è questo. Il peccato parte dalla volontà dell’uomo e dunque ogni atto volontario qualifica l’uomo in bene o in male. Se io compio il peccato, se la mia volontà aderisce al male; questo non è semplicemente qualcosa che ha a che fare con un atto che non mi riguarda, ma è qualcosa che ha a che fare con me, perché attraverso quell’atto mi qualifico secondo la caratteristica morale propria di quell’atto.
Detto in modo più chiaro, per capirci: chi compie il male diventa malvagio; chi compie il bene, diventa buono. È per questo che nella Scrittura noi troviamo questi testi e san Tommaso ci dice: chi commette il peccato si rende nemico di Dio; e qualificandosi in modo malvagio, Dio lo ha in odio. In che senso? Non nel senso che lo manda in perdizione, ma nel senso che si crea un’inimicizia. Questa inimicizia deve essere sanata e quindi Dio mette in campo tutte le armi della grazia e della provvidenza per recuperare l’uomo e farlo ritornare a Lui. Ma è un fatto che è necessaria una riconciliazione. Anche questo aspetto non ce l’abbiamo molto chiaro, perché noi pensiamo al peccato come a una marachella di gioventù, qualcosa che non ha – per così dire – un ritorno qualificativo nell’uomo che lo compie, ma non è così.
«Secondo, perché essa [la passione di Cristo] è un sacrificio graditissimo a Dio. L’effetto proprio del sacrificio è infatti di placare Dio (…). Ora, che Cristo abbia patito volontariamente fu un bene così grande che per tale bene riscontrato nella natura umana Dio si placò per tutte le offese ricevute dal genere umano, quanto a coloro che sono uniti a Cristo sofferente nella maniera sopra indicata» (ibidem). Si riferisce a quanto abbiamo visto poco prima e anche nelle volte passare: questo sacrificio, che è oltremodo «graditissimo a Dio», come dice Tommaso, ha una grandezza di carità e di offerta proprio per il fatto che è il sacrificio dell’uomo-Dio, e riconcilia gli uomini con Dio.
Ma chi viene riconciliato? Chi viene ritrovato in Cristo, cioè le membra di Cristo, perché queste membra sono esse stesse sacrificio gradito a Dio nell’unico sacrificio del Figlio. Al di fuori di questo quadro, è impossibile una riconciliazione con Dio. Questo punto è importantissimo ed è bene ripeterlo. Per quanto possano essere puri ed elevati gli sforzi religiosi dell’uomo, la riconciliazione è impossibile se non è in Cristo. Questo è fondamentale comprenderlo ed è qui che si radica l’unicità della vera religione cristiana. Unica non perché è la “mia” religione o di Tizio, Caio e Sempronio, ma perché è la religione del Verbo incarnato e dell’Incarnazione redentiva, senza la quale non c’è riconciliazione con Dio perché non c’è unione con il Verbo: la salvezza è divenire membra del Verbo e rimanere in questa unità.
Ora, san Tommaso risponde a due difficoltà. La prima: Dio ci ha sempre amati, quindi che bisogno c’è di riconciliarci? Due amici che sono sempre stati in amicizia non hanno bisogno di riconciliarsi: Dio ci ama sempre, quindi perché c’è bisogno di una riconciliazione? San Tommaso risponde: «Dio ama tutti gli uomini per la natura che egli stesso ha creato. Ma li odia per la colpa che essi commettono contro di lui, secondo le parole del Siracide (12, 6): “L’Altissimo odia i peccatori”» (III, q. 49, a. 4, ad 1). È una frase che ci scuote ma sottolinea quello che dicevamo poco fa: Dio ama tutti gli uomini, ma nella misura in cui l’uomo commette una colpa contro di Lui, egli diviene avversario di Dio, in quanto la colpa che egli commette lo qualifica. Fino a quando lo qualifica? Fino a quando l’uomo non si pente, fino a quando non allontana da sé la colpa commessa. È chiaro che diviene, secondo un’altra espressione forte della Scrittura ma vera, «figlio dell’ira», a causa di questo staccarsi da Dio, di questo mettersi in contrapposizione con Dio.
Dunque, attenzione, perché noi oggi diciamo solo una parte, pur importantissima, della verità, cioè che Dio ama tutti gli uomini, così come diciamo giustamente che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati, vuole la conversione dei peccatori. Ma dall’altra parte dobbiamo sempre ricordarci che Dio, odiando il peccato, odia il peccatore nella misura in cui il peccatore rimane aderente al proprio peccato. Questo è fondamentale tornare a dirlo, perché altrimenti non comprendiamo la grandezza della passione del Signore e la necessità che questa passione ci raggiunga attraverso la vita sacramentale.
Ancora, san Tommaso scrive: «Si dice che Cristo ci abbia riconciliati con Dio non nel senso che questi abbia ripreso di nuovo ad amarci perché sta scritto: “Ti ho amato di amore eterno” [dunque, vedete, non ha mai smesso di amare l’uomo in quanto uomo]. Ma per il fatto che la passione di Cristo ha tolto la causa dell’odio, sia con la cancellazione del peccato sia con la compensazione di un bene più gradito» (III, q. 49, a. 4, ad 2). Vediamo dunque di nuovo questo fatto: il peccato provoca l’odio divino nel senso che abbiamo detto adesso. C’è questa inimicizia, questa contrapposizione, perché Dio non può tollerare il male, non può tollerare il peccato. E fin quando l’uomo aderisce al peccato, egli stesso si qualifica come peccatore. Non dobbiamo intendere che Dio odia il peccatore e allora non c’è più nessuno che si salva: odia il peccatore che aderisce al proprio peccato, non il peccatore pentito.
Quinto e ultimo articolo che ci interessa per la nostra catechesi: l’apertura delle porte del cielo. San Tommaso dice molto chiaramente che il peccato, in primis il peccato originale, impedisce di entrare in cielo. La passione del Signore, che ci libera dal peccato sia quanto alla colpa sia quanto alla pena e ci riconcilia con Dio perché Cristo ha soddisfatto per noi, cosa fa? Ci apre le porte del cielo.
Ora, qui ci sono alcune precisazioni che nelle diverse risposte alle obiezioni san Tommaso pone davanti. La prima: allora, tutti quelli che sono venuti prima di Cristo e sono morti, inclusi san Giuseppe e san Giovanni Battista, dove sono andati? Ebbene, san Giuseppe e san Giovanni Battista, sebbene santi, dopo la loro morte non potevano entrare nel regno dei cieli. Le porte del cielo erano chiuse in quanto la passione di Cristo non era ancora avvenuta. Tuttavia, dice san Tommaso: «La loro fede o giustizia [cioè la fede e giustizia di tutti i giusti prima di Cristo, tra cui san Giuseppe, san Giovanni Battista, tutti i patriarchi, i profeti, Mosè, insieme a tantissime altre persone giuste sconosciute a noi] non poteva bastare a togliere l’impedimento dovuto al reato di tutto il genere umano. Il quale fu invece eliminato dal sangue di Cristo. Per questo, prima della sua passione, nessuno poteva entrare nel regno dei cieli, conseguendo cioè la beatitudine eterna, che consiste nella piena fruizione di Dio» (III, q. 49, a. 5, ad 1). Eppure, questi giusti hanno meritato di entrare nel regno dei cieli, pur non potendolo ancora fare, come? «Mediante la fede nella passione di Cristo», come dice san Tommaso. Cioè, la fede in Colui che doveva ancora venire a patire per redimerci.
Seconda obiezione: Elia fu rapito in cielo. San Tommaso risponde: non fu sollevato al cielo empireo, cioè non entrò nel Paradiso, nella sede dei beati, ma «fu sollevato al cielo aereo», cioè in un’altra dimensione che non è la beatitudine eterna. Quando parliamo dell’ascensione di Elia, non è un’ascensione nel regno dei cieli perché appunto questi erano ancora chiusi.
Terzo, i cieli che si aprono al battesimo del Signore sono in qualche modo l’anticipazione di quanto sarebbe accaduto a tutti coloro che si sarebbero uniti, tramite il battesimo, alla morte di Cristo. Ma ancora non fu quello il momento in cui si aprirono i cieli. Quando si aprirono? Nella risposta alla quarta obiezione, san Tommaso spiega che i cieli si aprirono quando «con la sua passione Cristo ci ha meritato l’ingresso nel regno dei cieli e ne ha rimosso gli ostacoli» (III, q. 49, a. 5, ad 1). Quindi, la passione di Cristo è la condizione dell’apertura e della rimozione degli ostacoli per entrare nel regno dei cieli; «ma con la sua ascensione ci ha come introdotti nel possesso del regno dei cieli» (ibidem). Questo è l’aspetto a cui non pensiamo quando festeggiamo la solennità dell’Ascensione, che la Provvidenza ha voluto che cadesse proprio questa domenica.
L’Ascensione non è semplicemente Gesù che se ne va, ma è Cristo che sale al cielo e, per i meriti della sua passione, porta con sé migliaia, milioni di anime dei giusti che attendevano l’apertura del regno dei cieli. Tant’è vero che nella liturgia antica, per indicare l’ascensione del Signore, si dice che Gesù ascende, captivam duxit captivitatem, cioè: “ha condotto prigioniera la prigionia”, ha portato con Sé coloro che erano ancora prigionieri perché non potevano ancora entrare nel regno dei cieli. Dunque, portando via la prigionia, liberando la prigionia, ha liberato i prigionieri e li ha resi liberi di entrare nel regno dei cieli. Dobbiamo pensare in questa solennità a un vero e proprio corteo che in Cristo e al seguito di Cristo entra nel regno dei cieli, che è stato aperto grazie ai meriti della passione e morte del Signore. Dunque, questo bellissimo mistero dell’ascensione del Signore è un compimento.
La prossima volta vedremo la quæstio 50, che si focalizza sulla morte del Signore.
La Passione del Signore (VI parte)
Ogni peccato comporta una pena, come conseguenza di una giustizia violata. La Passione ha liberato l’uomo dai castighi conseguenti al peccato in due modi: ma l’uomo, per godere di questi effetti, deve conformarsi a Cristo. Passione e Ascensione.
La Passione del Signore (V parte) – Il testo del video
La liberazione dal peccato e quella dal demonio: i primi effetti della Passione del Signore. In che senso essa ha operato la remissione dei peccati, anche futuri? E come il rimedio della Passione si applica ai singoli? Le risposte di san Tommaso.
La Passione del Signore (IV parte) – Il testo del video
Soddisfazione, espiazione, redenzione, sacrificio: tutti concetti oggi pressoché spariti dalla predicazione ordinaria, che san Tommaso affronta trattando di passione di Cristo, salvezza e merito. Misericordia e carità non eliminano la giustizia, ma la presuppongono.
La Passione del Signore (III parte) – Il testo del video
Gesù si sottopose volontariamente alla sua Passione, ma ciò non toglie la colpa dei suoi carnefici. «Affrontò la morte per carità e per obbedienza» (S. Tommaso), riparando il peccato dei progenitori. Ignoranza e responsabilità: il senso delle parole di Gesù in croce.