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TORINO

La liberazione dell'imam Shahin, una giustizia che non capisce il jihad

Torna in libertà l’imam Mohammed Shahin, di Torino, quartiere di San Salvario. In una manifestazione del 9 ottobre avreva giustificato il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023 a Gaza. Lo difendevano la sinistra estrema e anche monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, nel nome della "libertà di opinione".

Libertà religiosa 17_12_2025
Una delle manifestazioni per la liberazione dell'imam Shahin (La Presse)

Torna in libertà l’imam Mohammed Shahin, di Torino, quartiere di San Salvario. Lunedì 15 dicembre, la Corte d’Appello di Torino ha accolto il ricorso presentato dai legali di Shahin contro il trattenimento nel Cpr: l’imam, stabiliscono i giudici, non è una persona pericolosa per l’Italia e deve essere liberata. Mohamed Shahin è uscito dal Cpr di Caltanissetta, dopo tre settimane di detenzione. All'imam è stato consegnato un permesso di soggiorno provvisorio emesso dalla Questura di Caltanissetta. Il Viminale aveva emesso un decreto di espulsione a suo carico. E la stessa Corte d’Appello di Torino, appena tre settimane fa, il 27 novembre, aveva convalidato il trattenimento dell’imam nel Cpr, in attesa di espulsione. Se si tratta di una decisione politica, non potrebbe essere il momento peggiore.

Perché il Viminale aveva emesso un decreto di espulsione per l’imam di Torino? Lo scorso 9 ottobre, durante una manifestazione pro-Pal, all’indomani del secondo anniversario del pogrom di Hamas contro gli ebrei di Israele al confine con Gaza (quasi 1200 persone assassinate, 250 prese in ostaggio), Mohammed Shahin aveva detto, chiaro e tondo: «Io personalmente sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre 2023: non è una violazione, non è una violenza». La sua tesi implica la distruzione di Israele. Tutto il territorio su cui oggi sorge lo Stato ebraico è Palestina: «terra santa dei musulmani, occupata dal 1948, 80 anni fa. Non dal 7 ottobre». Intervistato successivamente da La Stampa, Shahin ha ribadito il suo parere sulla guerra mediorientale, al massimo ha condannato le violenze dei pro-Pal contro la polizia: «Dobbiamo essere dolci, calmi, sorridenti. Nessun tipo di violenza verrà mai accettato». In Italia, si intende. In Medio Oriente, a quanto dice, è un altro paio di maniche.

La prima politica a chiederne l’espulsione era stata Augusta Montaruli, vice capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera: «Le parole dell’imam di Torino sono gravissime e inequivocabili.
Dire che il 7 ottobre non ci fu violenza è un atto di sostegno al terrorismo che non può trovare spazio né a Torino né in altre parti d’Italia». Anche l’eurodeputata della Lega Silvia Sardone era stata fra le prime a condannare quanto dichiarato dall’imam: «Quanto accaduto a Torino è inaccettabile. Svela in pieno quello che pensano molti imam e quello che viene propagandato in molte moschee. In alcune comunità musulmane viene alimentato un clima d’odio che sfocia nell’antisemitismo. La cosa grave è che sempre più spesso si chiudono gli occhi di fronte all’estremismo islamico. In particolare la sinistra è complice perché va a braccetto con questi personaggi e pur di attirare voti musulmani e disposta a tutto, anche a non condannare forme sempre più evidenti di antisemitismo».

Il decreto di espulsione non era arrivato solo per una dichiarazione durante una manifestazione. C’erano altri indizi di contatti fra l’imam e l’ambiente più radicale dell’islam italiano. Secondo le autorità di polizia, l’uomo rappresenta «una minaccia concreta, attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Nelle tre pagine del decreto di espulsione si legge che Shahin avrebbe «intrapreso un percorso di radicalizzazione religiosa connotata da una spiccata ideologia antisemita» e risulterebbe «in contatto con soggetti noti per la visione violenta dell’islam» nonché esponente della Fratellanza musulmana in Italia.

La stessa Corte d'Appello di Torino, che il 27 novembre aveva convalidato il trattenimento dell'imam nel Cpr di Caltanissetta, evidenziava: «nel marzo 2012 veniva fermato dalla Polizia di Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo, indagato per reati di terrorismo, trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013». Sei anni dopo, «nel 2018, nell'ambito di indagini coinvolgenti Halili Elmahdi (tratto in arresto e condannato per reati di apologia di terrorismo), veniva registrata una conversazione in cui questi consigliava ad altro soggetto di rivolgersi a Shahin presso la moschea di Torino».

Nel 2019, l’imam Shahin era balzato agli onori della cronaca perché aveva fatto parlare nella sua moschea, la “Omar Ibn Khattab” di via Saluzzo, un certo “Professor Usama” che aveva il suo discorso con un motto dei Fratelli Musulmani che dice «il Corano è la nostra costituzione». Shahin, egiziano, non nascondeva la sua simpatia per l’ex presidente dell’Egitto rivoluzionario, Mohammed Morsi, poi arrestato dopo il colpo di Stato di Al Sisi e morto di morte naturale nel 2019. E questo è proprio l'argomento cardine della difesa: se rimpatriato in Egitto, in quanto sostenitore di Morsi, Shahin rischia il carcere o peggio (anche la tortura o la morte). Quindi è per ragioni umanitarie che dovrebbe essere trattenuto in Italia. Ma non dobbiamo neppure dimenticare che Morsi era a capo del partito emanazione della Fratellanza Musulmana egiziana e stava rapidamente trasformando il paese in un nuovo regime islamico, a danno soprattutto della minoranza cristiana che non ha mai subito così tanti attacchi come nel periodo in cui era presidente.

Nelle motivazioni della Corte d’Appello per far uscire Shahin dal Cpr, leggiamo: «i contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo sono isolati e decisamente datati (si fa unicamente riferimento a una identificazione del 2012 e a una conversazione del 2018, quest'ultima peraltro intercorsa tra soggetti terzi) e sono stati ampiamente spiegati e giustificati dal trattenuto nel corso della convalida».

Festeggia la sinistra torinese, che ha stabilito un presidio per accogliere l’imam al suo ritorno. Nella più classica tradizione dell’islamo-comunismo, la sinistra estrema, soprattutto il centro sociale Askatasuna (protagonista dei disordini pro-Pal e no-Tav), era in mobilitazione permanente da quando il Viminale aveva deciso di espellere Shahin. Anche il recente assalto alla sede della redazione del quotidiano La Stampa, di Torino, di cui era protagonista sempre il centro sociale Askatasuna, era motivata sempre da Shahin. Il quotidiano, che pure è apertamente di sinistra, secondo i militanti di sinistra non aveva difeso Shahin, oltre ad essere “complice di genocidio”. Ma oltre alla sinistra, anche un pezzo importante di Chiesa si era schierato per la liberazione dell’imam. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo e presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della CEI era stato fra i primi a scendere in campo per difendere Shahin che definisce “un uomo del dialogo”. «In Italia c’è libertà di opinione. Mobilitiamoci», dice nel suo appello di due settimane fa. Un uomo di dialogo giustifica il terrorismo di Hamas?

Libertà di opinione o apologia al terrorismo? La premier Giorgia Meloni, nel commentare la liberazione dell’imam, non ha espresso dubbi: «Parliamo di una persona che ha definito l’attacco del 7 Ottobre un atto di “resistenza”, negandone la violenza. Che, dalle mie parti, significa giustificare, se non istigare, il terrorismo». E poi, riferendosi all’azione della magistratura: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?».

Non si può che constatare anche il tempismo perfetto: a meno di 24 ore da uno dei più gravi attentati terroristici islamici recenti, la strage degli ebrei a Sidney, in Australia, un imam che giustifica il terrorismo di Hamas viene rimesso in libertà. Dall’11 settembre è sempre la stessa storia, non sappiamo (o vogliamo) capire il terrorismo islamico. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, vista l’esperienza più che ventennale in Europa, che il jihadista che uccide è solo l’ultimo anello di una catena di odio contro gli infedeli. Questa catena parte da chi l'odio lo predica. Non c’è alcuna prova che dimostri legami con il terrorismo dell’imam di Torino. Ma le sue parole sul 7 ottobre sono inequivocabili. Sajid e Naveed Akram, i due attentatori di Sidney, sono diventati jihadisti dopo un percorso di radicalizzazione presso imam estremisti in Australia. Naveed Akram, oltre che operaio, aveva seguito “studi religiosi”. Si può difendere il principio di libertà di opinione, in sé, come è giusto, in tutte le circostanze. Ma ciò non toglie che tenere un predicatore di odio in libertà nel proprio paese è come avere una bomba ad orologeria in casa propria. Puoi controllarla finché vuoi, ma è pur sempre una bomba.