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Ora di dottrina / 134 – Il supplemento

La lezione della disputa sul Filioque

La questione del Filioque insegna che gli scismi purtroppo difficilmente rientrano, perché la separazione crea una rigidità di atteggiamento. Fondamentale è ragionare e argomentare in modo coerente con le Scritture e la Tradizione. E bisognerebbe evitare facili etichette.

Catechismo 20_10_2024
Bessarione

Oltre al tema del Filioque, che abbiamo affrontato negli ultimi articoli, nel “menù” del Concilio di Ferrara-Firenze, in relazione alla riunificazione con i Greci, vi furono anche altri temi cardine, come la questione dell'uso del pane azzimo nella celebrazione dei Divini Misteri, la dottrina sul Purgatorio e, soprattutto, il primato del Vescovo di Roma.

Le discussioni furono ampie e prolungate, ma bisognava arrivare ad una conclusione, per evitare che il Concilio finisse solo in parole. Si cercò perciò di arrivare al dunque, con il vescovo di Nicea, Bessarione (1403-1472), che spingeva per la riunificazione e il metropolita di Efeso, Marco Eugenico (1392-1444), che invece non ne voleva sapere. Alla fine venne comunque preparata una formula d'unione, non senza tensioni e attriti, espressa nella bolla Lætentur cæli (6 luglio 1439).

I Greci partirono per rientrare nelle proprie terre e il Concilio fiorentino continuò per affrontare altri problemi ed estendere la riunificazione ad altre chiese orientali separate. Pochi mesi dopo la Lætentur cæli, il 22 novembre, si giunse infatti ad una formula di unione con gli armeni (bolla Exsultate Deo). Più tempo fu necessario per la riconciliazione con i copti e gli etiopi (4 febbraio 1441 o 1442).

Ma non appena la notizia della bolla firmata il 6 luglio si sparse a Costantinopoli e dintorni, ci fu una sollevazione contro la riunificazione, supportata soprattutto dai monasteri e dall'inesauribile Marco Eugenico, che si era rifiutato di apporre la propria firma alla Lætentur cæli e che ora cercava di radunare le truppe per la resistenza. Resistenza che alla fine ebbe la meglio e condusse ad una nuova lacerazione, che sfociò in un concilio riunito dalla parte greca nel 1472. Gli imperatori cristiani d'Oriente avevano cercato di contenere le spinte centrifughe e di mantenere alla meglio la fragile unificazione ottenuta a Firenze. Ma con la presa di Costantinopoli da parte degli Ottomani, la loro influenza finì e così la parte greca che spingeva per un nuovo scisma ebbe la meglio e ottenne dal sultano Maometto II (1432-1481) di poter avere alla sede patriarcale di Costantinopoli Giorgio Scolario (ca 1405-1472). Scolario fu grande sostenitore della riunificazione durante il Concilio di Firenze, ma, a partire dal 1444, rovesciò completamente la propria posizione, aprì le ostilità con la Chiesa cattolica ed entrò nelle grazie del sultano, che aveva ovviamente tutto l'interesse politico di supportare la divisione tra Greci e Latini.

Cerchiamo di tirare un po' le somme da quanto emerso nella serie di articoli che abbiamo dedicato alla questione del Filioque. La prima e più semplice: gli scismi difficilmente rientrano. Purtroppo. E la ragione non è difficile da comprendere. Non appena ci si pone in una situazione di totale indipendenza, si avverte la necessità di sviluppare un armamentario di argomentazioni che giustifichino la rottura. Argomentazioni che diventano man mano “granitiche”, mentre la parte da cui ci si è distaccati diventa l'emblema dell'eterodossia. Se si prende, appunto, il dibattito sul Filioque, si può vedere come, ad un certo punto, ciò che veniva tollerato (ossia la presenza del Filioque nei Simboli latini) divenne motivo per accusare di eresia. Una prolungata permanenza della separazione crea così una rigidità di atteggiamento per la necessità di difendere non solo la propria posizione, ma soprattutto quella realtà complessa, fatta di fedeli, monasteri, seminari, opere di vario genere, che si è andata costituendo e ha la sua ragion d'essere proprio nella separazione. Le ragioni teologiche non di rado vengono messe a servizio della “ragion di Stato”.

La seconda considerazione riguarda l'atteggiamento argomentativo, talvolta nella linea della disputa, che si è registrato durante il Concilio di Ferrara-Firenze. Da parte latina non si esibì un argomento di pura autorità, ma si sviluppò un'argomentazione ampiamente ancorata negli scritti dei Padri della Chiesa e nel sano ragionamento; si cercò cioè di ragionare, argomentare, confrontarsi. Si tratta di un aspetto fondamentale, oggi purtroppo non sufficientemente utilizzato e valorizzato. Quando si presentano punti controversi, è di fondamentale importanza ragionare e mostrare come una certa posizione risulti ancorata alle fonti della Rivelazione e alle sue autorità interpretative. L'opposizione di argomenti puramente d'autorità non fa altro che acuire la contrapposizione e non permette alla controparte di riconoscere il vero. Ricordiamo che fu proprio questo approccio a far sì che autorevoli rappresentanti della parte greca, come Bessarione, inizialmente ostili all'unione, potessero cambiare la propria posizione. Non basta affermare che una certa posizione è uno sviluppo coerente della dottrina: occorre mostrarlo.

Terza sottolineatura: occorre molta prudenza a brandire, nelle discussioni dottrinali, termini come “innovatori”, “conservatori” et similia, da usare contro le posizioni altrui o per difendere le proprie. È decisamente più fruttuoso e meno indisponente entrare nelle argomentazioni, cercando di trovare gli elementi comuni, senza per questo nascondersi quelli di contesa. Si è infatti visto come la parte greca, in particolare Marco Eugenico, utilizzasse proprio l'argomento della novitas per squalificare il Filioque. A questa accusa di aver rotto con la Tradizione – che poteva apparire come fondata, dal momento che erano i Latini ad aver aggiunto al Simbolo il Filioque – i padri del Concilio mostrarono pazientemente che quell'aggiunta, che poteva essere interpretata anche in modo eterodosso, era tuttavia comprensibile in un modo del tutto conforme al dogma; ed era appunto questa interpretazione in continuità ad essere difesa dai Latini.

Allorché Benedetto XVI, nell'arcinoto Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, parlò dell'ermeneutica della riforma nella continuità, non inventò nulla di nuovo, ma semplicemente riformulava un principio chiave dello sviluppo dogmatico e della comprensione della fede. Non si tratta di arrampicarsi sugli specchi e tirare in qualche modo un testo per il bavero, per forzarlo in una linea di continuità, ma di comprendere come spesso l'uso di certi termini, apparentemente in discontinuità, possa invece custodire un significato ortodosso.



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