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Ucraina, due anni dopo

La guerra eterna che l'Occidente dovrebbe evitare nel proprio interesse

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Rispetto alla Russia e alla sua guerra contro l'Ucraina, la vera questione posta nel dibattito pubblico dovrebbe essere: quale vantaggio hanno i paesi liberaldemocratici europei nella continuazione a oltranza di un conflitto senza sbocchi?

Esteri 24_02_2024

La guerra in Ucraina compie oggi due anni, e sempre più appare finita in un vicolo cieco, ancorata a una maledizione destinata a perpetuarla indefinitamente, in un'inesauribile e inconcludente spirale di offensive, controffensive, ritorsioni, odi e distruzioni.

Dopo due anni di combattimenti sanguinosi e accanita propaganda contrapposta lo stato attuale del conflitto indica a qualsiasi osservatore non prevenuto un bilancio difficilmente eludibile. Da un lato è evidente che, nonostante il supporto militare occidentale e le innumerevoli raffiche di sanzioni da esso irrogate al regime di Vladimir Putin (l'ennesima serie di misure è stata appena varata, proprio sottolineando l'anniversario dell'inizio della guerra, dall'amministrazione Biden), nelle condizioni attuali l'Ucraina non ha alcuna possibilità di riconquistare, se non in minima parte, i territori invasi dall'esercito di Mosca; e anzi la schiacciante superiorità dell'ingombrante vicino nel campo degli armamenti e nella demografia la pone in costante pericolo di perdere ulteriore terreno.

Dall'altro, nonostante questa evidenza si sia affermata ormai da tempo, continua a non apparire all'orizzonte nessuna palese iniziativa di trattativa o di pace, e nemmeno di temporaneo cessate il fuoco. Vladimir Putin dichiara – comprensibilmente dal suo punto di vista, a partire dal consolidamento di una relativa preminenza territoriale - la disponibilità del proprio governo a colloqui di pace, ma senza avanzare alcuna proposta precisa. Mentre dall'altra parte sia il governo di Volodymyr Zelensky sia i suoi “patroni” occidentali continuano a rifiutare qualsiasi possibilità di mediazione o compromesso, veicolando ancora insistentemente la sola idea della “resistenza” a oltranza e della lotta senza quartiere all'invasore, accompagnata dall'obiettivo minaccioso di “far pagare” a Putin i suoi soprusi. A dispetto del plateale insuccesso incontrato finora da tutti i proclami di riscossa e “riconquista” ripetutamente lanciati nel corso di questi due anni.

Una tale incrollabile, granitica persistenza della retorica bellicista, tanto più in quanto apparentemente non accompagnata da alcun “piano B” realistico per superare lo stallo del conflitto, non si era mai manifestata da parte occidentale nemmeno nel corso della guerra fredda, nonostante la contrapposizione ideologica totale che separava l'alleanza a guida statunitense dall'Unione sovietica comunista; ma domina ora incontrastata nell'atteggiamento verso la Russia putiniana, che pure della superpotenza sovietica è l'erede, benché decaduta, dal punto di vista tanto geopolitico che della deterrenza nucleare. E in tutte le crisi internazionali del dopo-guerra fredda l'impegno militare occidentale diretto o indiretto è stato sempre accompagnato dalla pretesa del peace enforcing o del peace keeping, e dalla dichiarata volontà di arrivare presto o tardi a soluzioni pacifiche, promuovendo iniziative in tal senso presso le istituzioni internazionali.

Nel caso del presente conflitto russo-ucraino, al contrario, ogni spazio per un possibile negoziato viene negato, e la situazione viene ancora rappresentata, in tutti i pronunciamenti ufficiali dell'amministrazione americana, della Nato, dell'Ue, del G7, sotto la forma di una semplicistica contrapposizione tra bene e male, in cui a Putin viene assegnato lo stigma del cattivo assoluto e irredimibile: un «pazzo figlio di ....», come pochi giorni fa lo ha apostrofato Joe Biden.

Un trattamento riservato, precedentemente, dalle leadership statunitensi soltanto ai nemici da eliminare e sconfiggere senza se e senza ma: quelli indicati come componenti di un ”asse del male”, secondo la definizione resa celebre a suo tempo da George W. Bush. Un trattamento che è stato da ultimo ulteriormente rinfocolato dalla morte del dissidente russo Alexej Navalny, che ha offerto ai governi occidentali il destro per scagliare ulteriori anatemi contro Putin. 

Ma che appare grottescamente inadeguato a quello che, piaccia o no, rimane il leader di una potenza nei confronti della quale è ancora valido l'“equilibrio del terrore”. Un leader che, peraltro, è stato considerato interlocutore legittimo dai paesi occidentali fino a pochi anni fa, sul piano diplomatico, economico e politico: è stato membro del G8 dal 1997 al 2014, è stato membro del Consiglio congiunto Russia-Nato, con tanto di esercitazioni militari comuni, ed è stato il principale fornitore di fonti energetiche del continente europeo.

La indubbia sostanza autoritaria del regime putiniano non può rappresentare, per la politica estera occidentale, l'unico e assoluto criterio ispiratore dei rapporti con esso, né vincolare a una guerra perpetua contro di esso, o addirittura a lavorare per un regime change o una dissoluzione di una unità statuale millenaria: esito dimostratosi finora totalmente irrealistico, e che d'altra parte, se pure mai si verificasse, avrebbe delle possibili implicazioni a dir poco inquietanti per la sicurezza occidentale. Del resto, fuori dall'Occidente sostanzialmente non esistono, o quasi, regimi liberali puntualmente rispettosi di diritti personali e limitazione del potere. E tuttavia i paesi occidentali (all'interno dei quali pure non mancano, a dire il vero, problemi in tal senso) hanno rapporti con l'uno o l'altro di essi sulla base di una valutazione realistica degli equilibri, dei vantaggi e delle convenienze.

Rispetto alla Russia e alla sua guerra contro l'Ucraina dunque, sgombrato il campo dai manicheismi ipocriti, la vera questione posta nel dibattito pubblico dovrebbe essere: quale vantaggio hanno i paesi liberaldemocratici europei, e ha l'Occidente nel suo complesso, nella continuazione a oltranza di un conflitto senza sbocchi?

E, prima ancora, dovremmo chiederci: perché l'Occidente non ha disinnescato per tempo le basi del conflitto, evitando che scoppiasse, visto che fin dall'inizio degli anni Duemila la divisione interna alla società ucraina, e l'ingerenza in essa di Mosca, era evidente? Perché non si è cercato un compromesso ragionevole che evitasse il precipitare della situazione? Perché l'Occidente – e in particolare le amministrazioni statunitense che si sono succedute nell'ultimo ventennio – non ha gestito con realismo e cautela l'allargamento della Nato, nonostante le riserve e i timori manifestati da Mosca, offrendo quanto meno a quest'ultima, all'epoca ancora interlocutore riconosciuto, un convincente patto complessivo per la sicurezza comune europea? Non sarebbe per l'Occidente preferibile, in un quadro di multipolarismo conflittuale in cui l'antagonista principale appare la Cina, garantire rapporti pacifici con la Russia, stabilizzando il Vecchio Continente ed evitando di consegnare Mosca nelle braccia di Pechino?

È alla luce di tali domande - che oggi rimangono regolarmente inascoltate, e che anzi attirano regolarmente su chi le pone la taccia di essere una quinta colonna putiniana - che dovrebbe oggi essere impostata la riflessione sulla ricerca della soluzione meno svantaggiosa a questo scontro tragico, che era evitabile e avrebbe dovuto essere evitato proprio nell'interesse di quello che ancora rappresenta se stesso come il “mondo libero”. Ma di una tale riflessione onesta nella leadership occidentale ancora non si vedono, purtroppo, segni tangibili.



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