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ORA DI DOTTRINA / 94 – IL SUPPLEMENTO

La crisi iconoclasta e il primato petrino

Durante la crisi iconoclasta che ha stravolto l’Oriente cristiano, è emerso con particolare vigore il senso del primato petrino. I fatti mostrano che allora il primato del Papa fosse un dato dottrinale riconosciuto. Poi avvenne lo scisma di Fozio...

Catechismo 10_12_2023
Raffigurazione Concilio Nicea II

La crisi iconoclasta ha conosciuto due fasi, tra l’VIII e il IX secolo, intervallate da un periodo di ristabilimento dell’ortodossia e dell’ortoprassi grazie al Concilio di Nicea del 787 e all’opera zelante dell’imperatrice Irene “ateniese” (752 ca - 803), reggente per il figlio, Costantino VI, dopo la morte dell’imperatore Leone IV (750-780).

L’intento di questo articolo non è quello di ricostruire lo scontro tra iconoclasti e iconoduli (ne avevamo parlato qui), ma di porre in evidenza un aspetto di grande rilevanza non sempre messo adeguatamente in luce. È merito di Erick Ybarra (vedi il suo The Papacy. Revisiting the Debate between Catholics and Orthodox, Emmaus Road, Ohio, 2022, 553-586) aver mostrato come, durante la crisi iconoclasta che ha stravolto l’Oriente cristiano, sia emerso con particolare vigore il senso del primato petrino. La sottolineatura di Ybarra acquista singolare valore, anche perché si tratta del periodo appena antecedente la crisi tra il Papa e il patriarca di Costantinopoli, Fozio (810 ca - 897), che getterà le basi per il Grande scisma del 1054.

Il Concilio di Hieria del 754, cui parteciparono 338 vescovi orientali, aveva condannato la venerazione delle icone; papa Stefano III (720-772) si era però rifiutato di accettarne gli atti e li condannò. L’imperatrice, consapevole dell’imprescindibilità del papato nel risolvere controversie legate alla fede e alla disciplina, scrisse al successore, papa Adriano I (700 ca - 795), chiedendo di recarsi a Costantinopoli e lì partecipare ad un nuovo concilio per dirimere la questione. Adriano, nel 785, inviò due lettere, una indirizzata all’imperatrice e l’altra al patriarca di Costantinopoli, Tarasio (730-806), nelle quali, oltre a difendere la venerazione delle sacre immagini, esprimeva l’insegnamento sul primato della Sede romana nel dirimere le questioni dottrinali. Il Papa sottolineava che quanto il Signore Gesù Cristo aveva conferito a Pietro, volendolo come clavigero del Regno dei Cieli, con il suo potere di legare e di sciogliere, si trasmetteva nella linea dei suoi successori sulla Cattedra romana: «In tutto il mondo il supremo titolo e potere furono conferiti al beato Apostolo Pietro dallo stesso Redentore del mondo; e mediante lo stesso Apostolo, la cui sede indegnamente occupiamo, la Chiesa cattolica e apostolica romana detiene il primo posto e l’autorità di potere».

La lettera a Irene venne letta durante il Concilio di Nicea II (787), il settimo ecumenico, come era d’uso, sia in latino che in greco. Ma la versione greca, presente negli Atti dello stesso, risulta ampiamente menomata proprio di quelle parti che più marcatamente definiscono il primato romano. Secondo gli storici di parte ortodossa, si tratterebbe della lettera effettivamente letta durante il Concilio: secondo questa tesi, dopo che i padri conciliari ebbero letto l’originale latino avrebbero emendato il testo durante la traduzione, per renderlo accetto ai greci.

Ma il filologo, prof. Erich Lamberz, P. Richard Price, curatore dei due volumi Acts of the Second Council of Nicea (787) ‒ che traducono e commentano i testi relativi, presenti negli Acta Conciliorum Oecumenicorum series ‒, e il filologo e storico Luitpold Wallach (+1986) sostengono invece che il testo greco menomato sarebbe frutto di una falsificazione compiuta decenni dopo, probabilmente durante gli anni della controversia con il patriarca Fozio. Durante il Concilio sarebbero invece stati letti e sottoscritti gli originali completi, in greco e latino, il che dimostrerebbe come l’affermazione del primato della Sede romana avesse ottenuto il consenso dei padri conciliari di Nicea, prevalentemente orientali (di circa trecento vescovi, solo quindici provenivano dall’Italia meridionale, oltre ai due legati pontifici).

Ci sono più ragioni per sostenere che il testo ridotto sia una falsificazione tardiva. Anzitutto, perché se i due legati ‒ e presumibilmente anche gli altri vescovi italiani ‒ avessero ascoltato una versione adulterata della lettera del Pontefice, avrebbero certamente sollevato rumorose rimostranze. Ma di ciò non si ha alcuna notizia storica.

Seconda ragione: Price ha fatto notare che la seconda lettera di papa Adriano, quella indirizzata al patriarca Tarasio, contiene tutte le affermazioni del primato della Sede Apostolica. Dunque perché i greci avrebbero emendato il testo, dopo aver letto l’originale latino, della lettera inviata all’imperatrice, e non avrebbero fatto lo stesso con la lettera a Tarasio?

Terzo argomento: circa ottant’anni dopo, papa Niccolò I (820-867) poté leggere l’epistola integra di papa Adriano, conservata negli archivi di Roma, e la segnalò all’imperatore Michele III (840-867), per mostrargli come i suoi predecessori avessero chiesto l’assistenza dei papi per dirimere questioni di fede. Nella missiva (cf. Mansi 15, 187-261), il Papa scriveva all’imperatore di guardare all’inizio degli Atti del Concilio del 787, dove si trovava appunto la lettera di papa Adriano, «per lo meno se non è stata falsificata secondo la consuetudine dei Greci, ma preservata nel suo testo originale dalla chiesa di Costantinopoli», precisava il Papa; il quale aggiungeva una maledizione su chiunque avesse osato apportare modifiche al testo.

Il fatto che, ai tempi di papa Niccolò, negli archivi romani non risultasse la lettera in greco “abbreviata”, ma solo quella integra, è un dato di estremo interesse: se durante il Concilio si fosse data lettura dell’epistola nella versione emendata, i legati pontifici avrebbero dovuto approvarla e mandarne copia firmata al Papa stesso; e tale copia sarebbe stata custodita negli archivi. Ma nella sua lettera a Michele III, il Papa mostra di non averla a disposizione. Né a papa Adriano, contemporaneo del secondo concilio niceno, giunse alcuna notizia di modifiche alla propria lettera, che egli evidentemente non avrebbe mai accettato.

Sul versante dei vescovi greci, inoltre, non si comprenderebbe come mai, se avessero rifiutato i passaggi espliciti sul primato petrino, avrebbero poi mantenuto la comunione con il vescovo di Roma. Inoltre, se la dottrina del primato fosse stata considerata una novità eterodossa, i vescovi presenti al Concilio non si sarebbero limitati ad emendarla, ma l’avrebbero condannata, come i padri del Costantinopolitano III (680-681) condannarono quella di papa Onorio (qui e qui); o perlomeno vi sarebbe traccia negli Atti del Concilio di una disputa sull’argomento o di una correzione. Ma non si ha testimonianza di nulla di tutto questo. Un silenzio che non solo mostra l’inconsistenza dell’ipotesi dell’emendazione della lettera prima della sua lettura durante l’assise conciliare, ma che depone a favore del fatto che il primato del Papa fosse un dato dottrinale riconosciuto.

E abbiamo anche due testimonianze contemporanee agli eventi a corroborare questa tesi. La prima è la lettera del patriarca di Costantinopoli, Tarasio, in risposta al Papa, riportata da Price nella sua pubblicazione degli Atti del Concilio del 787, nella quale egli riconosce che alla Sede romana spetta di «presiedere legittimamente e per volontà di Dio a tutta la sacra gerarchia». La seconda, ancora più rilevante, è che il concilio di Hieria, che sostenne l’iconoclastia, venne considerato invalido dal Concilio di Nicea II non semplicemente per il suo contenuto, ma anche perché «né il Papa romano né i vescovi attorno a lui vi hanno collaborato, nemmeno tramite lettere o legati, che è invece la legge dei concili» (Mansi 13, 207-210). La «legge dei concili» prevede dunque che un concilio, per avere forza vincolante, debba ricevere una qualche partecipazione e approvazione del Vescovo di Roma.

Ci troviamo di fronte al più esplicito riconoscimento del ruolo unico e insostituibile dei successori di Pietro nella Chiesa. Alla vigilia dello scisma di Fozio.



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