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Stregoneria e sviluppo

La Chiesa in Papua Nuova Guinea in aiuto alle vittime della credenza nella stregoneria

La diffusa convinzione che sia la stregoneria a provocare disgrazie, incidenti e malattie genera un clima ostile e diffidente di cui fanno le spese le persone accusate di praticarla

 

Svipop 04_10_2021

La credenza nella stregoneria è ancora radicata in molte parti del mondo. Dove è particolarmente diffusa è un freno allo sviluppo economico perché determina elevati tassi di litigiosità sociale, un clima generale di diffidenza e ovviamente un atteggiamento sbagliato nei confronti degli incidenti, delle disgrazie, delle malattie perché si tende ad attribuirli al malocchio lanciato da qualcuno. La credenza nella stregoneria inoltre è causa di grandi ingiustizie e sofferenze, inflitte a chi viene accusato di praticarla o di servirsene ricorrendo a uno stregone. In Papua Nuova Guinea la conferenza episcopale ha pubblicato di recente un rapporto su questo doloroso problema e da tempo le diocesi del paese si dedicano a proteggere le persone accusate di stregoneria cercando di sottrarle alla collera delle loro comunità. “Quando capitano casi di decessi difficili da spiegare senza un’adeguata conoscenza medica, è convinzione comune che quella morte sia il risultato del sanguma, termine utilizzato per indicare la stregoneria – si legge nel rapporto – anche in casi come le morti per Aids, i membri della famiglia del defunto danno la colpa alla stregoneria per evitare lo stigma. L’intervento di un glasman (indovino, ndr) definisce le cause della morte e rivela il nome di chi ha compiuto la stregoneria. Una volta che la famiglia del defunto muove le prime accuse verso una persona, questa viene processata dall’intera comunità, torturata e spesso uccisa senza alcuna prova”. Nel 2020 nella sola diocesi di Wabag, che ha inserito la lotta alla credenza nella stregoneria nel suo piano pastorale 2021-2025, nove persone sono decedute in seguito alle torture e alle violenze subite. Attualmente la diocesi si prende cura ospitandole in case sicure di 14 persone, tra cui tre bambini che rischiano la morte per le accuse di cui sono state fatte oggetto. L’8 settembre, benché fosse assistita in una casa sicura, una donna è stata picchiata e torturata a morte. “Lo sforzo – dice il rapporto – non sta solo nel tentativo estremo (e spesso pericoloso) di salvare le vittime, ma anche nel lavorare sulla prevenzione e sulla consapevolezza della gente”.