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TRANSBUROCRAZIA

La “carriera alias” rivela le contraddizioni del gender

Il lavoratore transgender può anticipare la nuova identità prima ancora del cambio anagrafico: Roberta sul cartellino (o negli spogliatoi) e Roberto sui documenti. Più che tutelare la persona, se ne dimentica l’unicità.

Attualità 25_08_2022
gender

Leggiamo l’art. 28 dell’Ipotesi Contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto funzioni locali, sottoscritto dall’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni e dalle Organizzazioni e Confederazioni sindacali rappresentative del Comparto Funzioni Locali: «Al fine di tutelare il benessere psicofisico di lavoratori transgender, di creare un ambiente di lavoro inclusivo, ispirato al valore fondante della pari dignità umana delle persone, eliminando situazioni di disagio per coloro che intendono modificare nome e identità nell’espressione della propria autodeterminazione di genere, le Amministrazioni riconoscono un’identità alias al dipendente che ne faccia richiesta. […] La carriera alias […] riguarda, a titolo esemplificativo, il cartellino di riconoscimento, le credenziali per la posta elettronica, la targhetta sulla porta d’ufficio, eventuali tabelle di turno orari esposte negli spazi comuni, nonché divise di lavoro corrispondenti al genere di elezione della persona e la possibilità di utilizzare spogliatoio e servizi igienici neutri rispetto al genere, se presenti, o corrispondenti all’identità di genere del lavoratore». Poi si aggiunge: «Non si conformano all’identità alias e restano pertanto invariate tutte le documentazioni e tutti i provvedimenti attinenti al dipendente che desidera intraprendere il percorso di affermazione di genere che hanno rilevanza strettamente personale (come ad esempio la busta paga, la matricola, i sistemi di rilevazione e lettura informatizzata della presenza, i provvedimenti disciplinari) o la sottoscrizione di atti e provvedimenti da parte del lavoratore interessato)».

Per carriera alias si intende la possibilità di avere alcuni documenti che, dal punto di vista dell’appartenenza sessuale, anticipano la futura rettificazione sessuale anagrafica. In buona sostanza e ad esempio, uno studente universitario che ha intenzione di “cambiare” sesso o che sta già “cambiando” sesso potrà avere un libretto in cui comparirà il suo nuovo e futuro nome femminile, anche se, sul piano anagrafico, lo studente conserva ancora il suo vecchio nome maschile. Ora si vuole che l’“identità alias” entri a far parte anche della vita di un comparto dei dipendenti della pubblica amministrazione.

Tralasciamo di commentare come la carriera alias sia una delle tante espressioni del delirio della teoria del gender che, in questo caso, vuole dissociare sesso biologico dal sesso psicologico, non volendo riconoscere il dato di fatto che il sesso è predefinito nella persona e non è oggetto di libera scelta. Tralasciamo anche di commentare una delle finalità indicate nel contratto, quella che fa riferimento alla volontà di “eliminare situazioni di disagio”: basterebbe pensare al disagio delle donne nel veder cambiarsi nei loro spogliatoi un uomo che si crede donna per capire che simile iniziativa sarà causa e non soluzione di molte situazioni di disagio.

Tralasciamo tutto questo e mettiamo in evidenza solo due aspetti, forse marginali o forse no. Il primo: l’“identità alias” riguarderà alcuni documenti, tessere, sistemi di riconoscimento, eccetera, ma non altri documenti e altre pratiche. Semaforo verde, perciò, per la targhetta sulla porta dell’ufficio e sul cartellino di riconoscimento, semaforo rosso per la busta paga e i documenti sottoscritti dal lavoratore della pubblica amministrazione. Per quale motivo? Perché questi ultimi, così si legge, «hanno rilevanza strettamente personale». E la targhetta sulla porta, il cartellino di riconoscimento, le credenziali per la posta elettronica, il nome sulle tabelle dei turni di lavoro non hanno rilevanza strettamente personale? Non riguardano la persona in quanto tale? E in secondo luogo, se si vuole la “carriera alias” per tutelare la persona, la sua identità, non è contraddittorio escludere la “carriera alias” proprio dalle pratiche e documenti più strettamente personali? Non si è pensato alla “identità alias” proprio laddove c’è in gioco l’identità personale? Evidentemente questa soluzione ibrida è stata dettata da prudenza, da sano pragmatismo e dai limiti oggettivi poste dalle normative: tu Roberto puoi farti chiamare Roberta laddove il tuo operato non è strettamente disciplinato dalla legge. Al di fuori da questo ambito e per evitare sia confusioni che azioni illegittime, tu Roberto continuerai a chiamarti Roberto.

C’è una seconda questione sollevata dal presente art. 28 che riguarda non solo questa ipotesi di contratto collettivo. Uno dei capisaldi della teoria gender è la cosiddetta identità di genere. Ossia la percezione che ha di sé la persona in merito all’appartenenza al sesso maschile o femminile al di là del dato biologico. Quindi un uomo può credersi donna e viceversa oppure un uomo può sentirsi un po’ maschio e un po’ femmina – a quote variabili – oppure non sentire di appartenere a nessun sesso oppure ancora può inventarsi un terzo sesso esistente, banale a dirsi, solo nella sua testa. Dunque, centrale in questa teoria è il concetto di identità che trova la sua autentica espressione sul piano psicologico e non genetico e che, come accennato, può presentare infinite sfumature “sessuali”. Ma, al di là delle plurime varianti, anche la persona con molteplici declinazioni della sfera sessuale si riconosce come “una” persona, un unico soggetto eventualmente caratterizzato da più sessi.

La “carriera alias”, voluta dai sostenitori della gender theory, però contraddice questo assunto perché scinde la persona in due: da una parte c’è l’“identità alias”, dall’altra l’identità anagrafica. Non c’è più una sola persona, bensì due. La “carriera alias” allora non appare come stratagemma per affermare la propria identità, l’unica identità che tutti dovrebbero riconoscere, bensì pare essere un mero compromesso. Nelle more del percorso burocratico volto alla rettificazione sessuale, imponiamo agli altri di chiamarci come vogliamo. La “carriera alias” allora va a testimoniare non la definizione di una precisa identità scelta dalla persona transessuale, bensì un momento transitorio dove la persona si trova divisa tra due identità, una vecchia e una nuova. Il lavoratore o lo studente finisce per non essere nessuno, perché, dal punto di vista burocratico, in lui sopravvive il passato e il futuro: una persona la cui identità, contrariamente alla sua volontà, appare essere imprecisa, indeterminata, sospesa nel vuoto, in mezzo ad un guado tra due rive opposte. Ma alla fine non è proprio questa l’essenza della teoria del gender?