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UN WOMEN

Incontro Onu, se non sei pro aborto non puoi parlare

Quattrocento gruppi pro vita di tutto il mondo denunciano l’esclusione dalla Commissione sullo status delle donne, incentrata su aborto e temi Lgbt fin dalla bozza preparatoria. Dove c’è ampio spazio per il connubio tra abortismo e ideologia ambientalista.

Vita e bioetica 17_03_2022

Se si tratta di donne, ma sei pro vita, non puoi partecipare. Questo è il succo di quanto sta avvenendo con l’annuale Commissione dell’Onu sullo status delle donne (14-25 marzo), nell’ambito della quale si sta vietando la partecipazione alle organizzazioni pro vita e famiglia di tutto il mondo. Semplicemente, non sono gradite. Uno strano modo di intendere l’«inclusività», che sarebbe uno dei valori dichiarati di chi gestisce le richieste di partecipazione. A senso unico, evidentemente.

Non è la prima volta che accade, ma la piega diventa col tempo sempre più preoccupante. Lo hanno denunciato circa 400 gruppi che difendono la vita fin dal concepimento, dall’Australia agli Stati Uniti, dall’Italia all’Argentina. «Negli ultimi anni - si legge in una lettera datata 25 febbraio 2022 - a molte delle nostre organizzazioni sono state negate le domande per eventi paralleli da ONG/CSW», che è l’organo semiufficiale del segretariato della Commissione sullo status delle donne (CSW, che fa capo a Un Women), avente il compito di coinvolgere nei lavori della suddetta commissione (intergovernativa) i gruppi che rappresentano la società civile. E nella società civile, si dà il caso, esiste una moltitudine di persone - uomini e donne, giovani e adulti - con una visione diversa da quella abortista.

Dopo alcuni decenni in cui hanno potuto con successo organizzare eventi propri, da qualche anno i gruppi pro vita si vedono respingere le loro richieste con la motivazione che un loro dato evento «non è in linea con i valori» degli organizzatori (la ONG/CSW). Gruppi progressisti hanno apertamente chiesto di bandire del tutto le associazioni pro vita dai dibattiti in seno alla CSW, definendole «anti-diritti». I «diritti» qui sottintesi sono i «diritti sessuali e riproduttivi», in cui rientrano sia l’aborto sia l’ampia gamma di pretese delle organizzazioni Lgbt.

Ma accanto ad essi, nella «bozza zero» della Commissione sullo status delle donne - che è la base di lavoro per il documento finale, non vincolante ma destinato all’Assemblea Generale dell’Onu e comunque utile a proseguire la pressione internazionale - c’è ampio spazio per l’ideologia ambientalista e il catastrofismo climatico. Temi che i gruppi abortisti vanno sempre più innestando nel loro pacchetto di propaganda (della serie: gli aborti per “salvare” il pianeta…), un po’ per la visione comune contro l’uomo, un po’ per accaparrare almeno una parte dei cospicui fondi in favore delle idee verdi.

Il linguaggio è altisonante: «La Commissione riconosce che la disuguaglianza di genere unita al clima e le crisi e i disastri ambientali sono le più grandi sfide del nostro tempo allo sviluppo sostenibile, colpendo l’intero pianeta e tutti i popoli, con impatti sproporzionati su donne e ragazze, in particolare quelle che si trovano in situazioni vulnerabili e marginalizzate e in contesti di guerra», si legge al punto 5 della «bozza zero». Un punto che Citizen Go, insieme ai paragrafi 3 e 15, sta chiedendo di cancellare attraverso una petizione che già conta oltre 120 mila firme; ma è tutto il documento preparatorio a essere viziato da concetti che vanno contro la morale naturale e di cui le donne, lungi dal raggiungere «l’emancipazione», sono le prime vittime.

Contro l’esclusione dei gruppi pro vita si è espressa anche una lettera firmata da una ventina di parlamentari statunitensi - con prima firmataria Lauren Boebert - e rivolta a Sima Bahous, direttrice esecutiva di Un Women, l’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere. I firmatari denunciano il fatto che la discriminazione ai danni dei pro vita faccia sembrare che Un Women e gli Stati membri non siano più interessati al «dialogo» su questioni che riguardano le donne e, piuttosto, «vogliono imporre una sorta di ortodossia femminista globale, schierandosi con governi potenti e interessi speciali che vogliono mettere a tacere le organizzazioni pro vita e pro famiglia».

Nella lettera si ricorda che non è con queste premesse che l’Onu è stata fondata e che anzi la protezione del diritto alla vita e dei valori della famiglia sono pertinenti con lo Statuto delle Nazioni Unite, la Dichiarazione universale dei diritti umani e altri documenti internazionali (carta straccia, quando non conviene). Ma il cattivo precedente del Summit di Nairobi del 2019, quando l’Unfpa escluse diverse organizzazioni pro vita, ha cambiato il corso delle cose. I firmatari ricordano anche che a Nairobi il governo degli Stati Uniti si fece promotore di una dichiarazione congiunta con altre dieci nazioni per chiedere alla comunità internazionale di concentrarsi su tematiche condivise e non su questioni come l’aborto o i costumi sessuali.

Ma allora, a rintuzzare le spinte dell’abortismo mondiale, c’era Donald Trump, che aveva anche tagliato i fondi all’Unfpa (e non solo); mentre con Joe Biden la musica è di nuovo cambiata, in peggio.

Nel frattempo si moltiplicano i paradossi dell’aborto, i cui alfieri invocano la “libertà di scelta” ma non si curano del diritto naturale altrui di venire al mondo; parlano di scelta informata, ma non vogliono sentire ragioni diverse dalle proprie; pretendono di custodire la "biodiversità" ma non si fanno alcun problema a cancellare dalla terra esseri umani innocenti.