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PAESE IN CRISI

In Libano perde Aoun, ma nessuno ora può governare

Nelle elezioni libanesi non è emersa alcuna maggioranza chiara. Di certo c’è solo la sconfitta di Michel Aoun, il presidente cristiano maronita alleato di Hezbollah e la crescita del partito cristiano d’opposizione, Forze Libanesi. Ma il percorso di formazione del nuovo governo si annuncia lungo e difficile. E il Paese è in piena crisi economica.

Esteri 19_05_2022
Libano, spoglio dei voti

Nelle elezioni libanesi non è emersa alcuna maggioranza chiara. Di certo c’è solo la sconfitta di Michel Aoun, il presidente cristiano maronita alleato di Hezbollah e la crescita del partito cristiano d’opposizione, Forze Libanesi. Ma il percorso di formazione del nuovo governo si annuncia lungo e difficile, proprio quando il Libano, in piena crisi economica, non può permettersi un vuoto di potere.

Va premesso che la crisi economica libanese non è paragonabile a quella che stanno vivendo, soprattutto a causa del Covid e delle politiche di lockdown, quasi tutti i Paesi del mondo. In Libano la crisi è scoppiata nel 2019, a causa dei troppi debiti ed è stata esacerbata dalla pandemia, dal crollo degli introiti turistici e infine dall’esplosione di un deposito di nitrato di ammonio a Beirut che ha devastato il porto commerciale, distruggendo anche il principale punto di approdo di tutte le importazioni. Una tempesta perfetta, insomma, che ha causato una delle tre peggiori crisi economiche nel mondo negli ultimi 150 anni, secondo la stima della Banca Mondiale, con una contrazione del Pil di oltre il 40%.

Le elezioni parlamentari che si sono tenute domenica, dunque, dovevano dare la possibilità di formare un governo stabile per negoziare prestiti con il Fondo Monetario Internazionale. Il premier, per costituzione, è sempre un musulmano sunnita, mentre il presidente è sempre un cristiano maronita (Michel Aoun, dal 2016) e il presidente del parlamento un musulmano sciita. Attualmente il premier è Najib Mikati, successore di Saad Hariri, che aveva dato le dimissioni nel 2019, a seguito della crisi economica. Il parlamento uscente era comunque dominato dal partito armato sciita Hezbollah, alleato dell’Iran e dotato di una milizia (più potente dello stesso esercito regolare) radicata nel Sud del Paese. Hezbollah aveva 13 seggi, assieme agli alleati Amal (sciita), Fronte Patriottico, il partito cristiano di Aoun, il generale che nella lunga guerra civile del 1975-90 aveva combattuto strenuamente contro le milizie druse e sciite e che si è alleato in tarda età con Hezbollah, lasciando tutti gli osservatori di stucco.

In queste elezioni, oltre alle coalizioni avversarie, formate da cristiani e sunniti soprattutto, Hezbollah e alleati hanno dovuto affrontare l’emergere di nuovi partiti e politici indipendenti, nati dalla protesta contro la crisi economica del 2019 e rafforzatisi dopo la devastante esplosione nel porto di Beirut del 2020. Prima delle elezioni, i partiti tradizionali hanno condotto una campagna molto aggressiva contro gli indipendenti, anche ricorrendo alla minaccia fisica o all’aggressione per intimidire loro e i potenziali elettori.

Gli effetti della crisi si sono fatti sentire, stando ai risultati elettorali. Ad essere penalizzato non è stato tanto Hezbollah, con il suo elettorato inquadrato e militarizzato (in senso stretto): il “partito di Dio” ha mantenuto i suoi seggi, così come Amal. Ma gli alleati cristiani del partito di Aoun hanno perso terreno. La coalizione a guida sciita ha dunque 62 seggi, 9 in meno rispetto al precedente voto, perdendo la maggioranza parlamentare.

A guadagnare dalla sconfitta di Aoun è stato soprattutto l’altro grande partito cristiano, Forze Libanesi, guidato da Samir Geagea, un altro dei protagonisti della lunga guerra civile libanese. Ha vinto 19 seggi, rispetto ai 15 che aveva ottenuto nel voto del 2018 ed è pronto a dar battaglia. “Serve un cambiamento radicale nel potere”, aveva dichiarato Geagea prima che venissero pubblicati i risultati.

Anche gli indipendenti hanno ottenuto risultati migliori delle aspettative. Nonostante non abbiano alle spalle macchine elettorali-clientelari, puntando solo sulla novità e sulla protesta popolare, hanno conteso seggi a Hezbollah e ai suoi alleati. Il druso Talal Arslan, alleato di Hezbollah, è stato sconfitto da un indipendente, del nuovo partito Taqaddom. Anche nel Sud, roccaforte del “partito di Dio”, un candidato della nuova lista Insieme per il Cambiamento ha battuto quello del Partito Socialista Nazionalista siriano.

La stanchezza dell’elettorato si è vista anche dal minore afflusso alle urne: il 41% degli aventi diritto ha votato, contro il 49% delle elezioni del 2018. Ora però, qualcuno dovrà negoziare i prestiti, perché il Paese è in mezzo al guado.