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IRAQ

Il Sinodo profugo (e invisibile) della Chiesa caldea

A Roma, lontano dai riflettori dei media, si sta tenendo un altro Sinodo, quello della Chiesa caldea irachena. Doveva tenersi a Erbil, nel Kurdistan iracheno, ma motivi di sicurezza non lo hanno consentito. E' un sinodo di una Chiesa profuga, proprio come il suo gregge che continua a fuggire dalla aree di guerra e persecuzione.

Libertà religiosa 27_10_2015
Raphael Sako

C'è Sinodo e Sinodo. A Roma se ne è appena chiuso uno che per tre settimane ha catalizzato l'attenzione di tutto il mondo. E subito ne è cominciato un altro molto meno mediatico. Dall'altro giorno, infatti, sempre in Vaticano, sono riuniti i ventidue vescovi della Chiesa caldea, la comunità cristiana che ha nel martoriato Iraq le sue radici.

Un Sinodo per certi versi profugo esattamente come il proprio gregge, devastato da decenni di guerre e persecuzioni. Impossibilitato ormai a riunirsi a Baghdad, il Sinodo doveva tenersi alla fine di settembre ad Ankawa, il quartiere dei cristiani ad Erbil, nel Kurdistan iracheno. Il posto dove decine di migliaia di caldei fuggiti da Mosul e dalla piana di Ninive sono accampati da ormai più di un anno, con sempre meno speranze di poter tornare alle proprie case da cui l'Isis li ha cacciati nell'estate 2014. Ma anche il Kurdistan oggi comincia a scricchiolare. E non tanto per nuove minacce dei jihadisti dalle bandiere nere, ma per uno scontro tutto interno ai curdi: quello tra il presidente Masoud Barzani - sostenuto dal suo partito Kdp - e il parlamento locale - con gli storici rivali del Puk di Jalal Talabani. Una lotta di potere all'ombra delle mille ambiguità di un Kurdistan sulla carta ancora parte dell'Iraq, ma in un Paese che di fatto non esiste più.

Certo, almeno per il momento a Erbil sono scaramucce che non toccano direttamente la condizione dei profughi. Ma sta di fatto che - complice anche la presenza del patriarca Raphael Sako al Sinodo sulla famiglia - i ventidue vescovi caldei hanno deciso di spostare a Roma il loro Sinodo. Così ieri hanno incontrato di nuovo il Papa che ancora una volta è tornato a lanciare un appello per queste comunità cristiane così duramente provate: «Prego affinché i cristiani non siano costretti ad abbandonare l’Iraq e il Medio Oriente», ha detto. Rinnovando l'invito alla comunità internazionale ad «adottare tutte le strategie valide al fine di promuovere il raggiungimento della pace in Paesi terribilmente devastati dall’odio».

L'ennesimo appello che anche ieri è passato via come se nulla fosse in un mondo pronto già ad assistere con indifferenza al secondo inverno nei rifugi di fortuna del Kurdistan per i cristiani di Mosul. Nel pendolo del grande conflitto che insanguina in Medio Oriente, infatti, gli occhi delle diplomazie sono tornati a spostarsi sulla Siria molto più che sull'Iraq. Con l'intervento russo il fronte principale della guerra è tornato ad essere quello intorno ad Aleppo, con nuove fiammate di distruzione. Ieri si è saputo della granata caduta domenica sul tetto della chiesa latina di San Francesco, nel quartiere di Aziziyeh, mentre era in corso la Messa: «Mi apprestavo a distribuire la santa Comunione - ha raccontato il parroco, padre Ibrahim al-Sabbagh -. Dobbiamo ringraziare il Signore poiché la cupola ha retto il colpo esploso all’esterno, non riuscendo a penetrare nella chiesa».

Il risultato di questa situazione senza sbocchi è che dal Kursdistan i cristiani continuano a partire: «L'anno scorso – ha raccontato l'arcivescovo caldeo di Erbil, mons. Bashar Matti Warda - avevamo 13.500 famiglie di profughi cristiani registrati nella nostra diocesi. Ora sono rimaste solo in 10 mila. Significa che più di 3.000 famiglie sono partite». Sono sui barconi che dalla Turchia provano a raggiungere le isole della Grecia. Sono nelle folle in cammino a piedi lungo la rotta dei Balcani. E tra quanti partono - sostiene l'agenzia assira Aina - ci sono sempre più insegnanti; il che rende ancora più invivibile la situazione nei campi profughi e alimenta ulteriormente il circolo vizioso.

È l'agonia lenta del cristianesimo caldeo che il patriarca Sako non si stanca di denunciare. Chiedendo a tutti i suoi fedeli di perseverare nelle tribolazione, di non cedere alla tentazione di un esilio che oggi significa un addio. Ma anche denunciando l'ipocrisia di una coalizione internazionale che non sa andare oltre i raid aerei simbolici contro l'Isis a Mosul. Che non sa dare giustizia a chi è stato spogliato di tutto.

Quello in corso a Roma è dunque il Sinodo di una Chiesa profuga, talmente debole da ritrovarsi divisa persino su come affrontare la piaga di quei sacerdoti che hanno scelto di partire anche loro per San Diego, negli Stati Uniti, senza aspettare l'assenso del vescovo. Il patriarca Sako lo ritiene un fatto gravissimo: ha già minacciato più volte sanzioni canoniche. Ma il vescovo caldeo della costa Ovest degli Usa, mons. Sahrad Jammo, finora li ha protetti. Ed è una delle questioni calde che il Sinodo sta affrontando. 

La Chiesa caldea non rinuncia a essere segno di speranza per la propria gente. E da Roma tende di nuovo le mani, in questo secondo inverno, invocando la solidarietà concreta dei cristiani di tutto il mondo. È l'unico modo per provare a sopravvivere. E pregare con il Papa affinché - dopo tante parole - le diplomazie dell'Occidente si scuotano finalmente dall'indifferenza intorno alla loro sorte.