Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Atanasio a cura di Ermes Dovico
TRAGEDIA

Il Kenya costruisce il muro e caccia i rifugiati dai campi

Il governo del Kenya ha informato l’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, della decisione irrevocabile di smantellare i due campi di Dadaab e anche Kakuma entro i prossimi mesi. Incerto il destino di almeno 500 mila  profughi. Inolre, il Kenya costruirà un muro di 700 chilometri al confine con la Somalia.

Esteri 31_05_2016
Campo profughi in Kenya

Dadaab, nell’est del Kenya, è il campo profughi più grande del mondo. Nato nel 1991 allo scoppio della guerra civile in Somalia, per accogliere qualche decina di migliaia di persone, oggi ne ospita 334.000, ma è arrivato a riceverne oltre 600.000. Già nell’aprile del 2015 il Kenya aveva detto di voler chiudere Dadaab e anche Kakuma, un altro campo situato più a ovest che oggi assiste 175.000 persone, in prevalenza provenienti da Somalia, Sudan e Sud Sudan. 

Per mesi non se ne è più parlato finché, all’inizio di maggio, il governo Kenya ha informato l’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, della decisione irrevocabile di smantellare i due campi entro i prossimi mesi: «il treno ha già lasciato la stazione», ha detto il presidente Uhuru Kenyatta il 27 maggio al vice segretario generale dell’Onu Jan Eliasson, «chi è interessato al successo del viaggio salga a bordo». L’annuncio ha lasciato dapprima increduli e poi sgomenti. In Italia qualcuno ha subito immaginato e previsto mezzo milione di profughi in cammino verso il Mediterraneo e poi imbarcati alla volta delle coste di Sicilia e Calabria: uno scenario apocalittico, e proprio mentre si susseguono notizie di naufragi, con centinaia di morti. 

Qualcuno, forse, ma la maggior parte degli ospiti di Dadaab e Kakuma non hanno né i mezzi né l’intenzione di andare così lontano. Come quasi tutti profughi, vivono nella speranza di poter tornare un giorno a casa. Piuttosto, nel caso dei somali di Dadaab, c’è il fatto che molti sono nati nel campo, figli di coppie espatriate da anni e persino di genitori già  nati a Dadaab. Il campo ormai è casa loro. Per tutti inoltre vale il fatto che sotto la tutela dell’Acnur ricevono assistenza, cibo, cure mediche, i loro figli vanno a scuola. In patria può attenderli una vita più dura e incerta. 

«Con questa avventata decisione», sostiene Amnesty International, «il governo del Kenya viene meno al proprio dovere di proteggere chi è indifeso e mette in pericolo migliaia di vite umane». L’Onu a sua volta si dice preoccupata soprattutto per i Somali e i Sud-sudanesi poiché «purtroppo in Somalia e in Sud Sudan i motivi che inducono la gente a fuggire sussistono». Anche i vescovi kenyani hanno preso la parola, contrariati e preoccupati. Ribadendo l’impegno a collaborare con le autorità, ricordano che sia la Convenzione di Ginevra sui rifugiati sia l’Unione Africana proibiscono il rimpatrio forzato dei profughi. Raccomandano quindi di trovare «soluzioni di lungo termine, sostenibili, che tutelino il diritto a un rimpatrio sereno e volontario». Il ministro degli Esteri somalo, infine, ha ammonito che il rimpatrio forzato dei profughi ne favorirà il reclutamento da parte di al Shabaab, il gruppo islamista legato ad al Qaida che dal 2006 combatte contro il governo somalo e tuttora, malgrado le sconfitte subite dopo l’intervento militare della missione africana Amisom, controlla alcune città ed estesi territori nel sud del paese.    

Ma il governo del Kenya accampa serie motivazioni economiche e di sicurezza nazionale. Le prime sono facilmente confutabili poiché l’onere dei profughi grava soprattutto sulla comunità internazionale che finanzia l’Acnur e le migliaia di Ong che operano nei campi. Quanto alle seconde, il ministro dell’interno Joseph Nkiassery sostiene che Dadaab «è diventato un santuario di al Shabaab che lo utilizza per pianificare attacchi in Kenya». C’è da credergli: allestiti per chi fugge dalla guerra, spesso i campi diventano anche rifugio di combattenti che si infiltrano e si mescolano alle loro stesse vittime ottenendo assistenza e approfittandone per ritemprarsi e progettare nuovi attacchi militari e terroristici.

Proprio in questi giorni la polizia kenyana ha sventato una serie di attentati destinati a colpire la capitale Nairobi e la città costiera di Mombasa; e all’inizio di maggio ha individuato una cellula jihadista che progettava di compiere un attentato biologico usando l’antrace. Al Shabaab negli ultimi anni ha in effetti messo a segno numerosi atti di terrorismo in Kenya. Il più grave è stato quello contro il campus universitario di Garissa, nell’aprile del 2015, costato la vita a 148 studenti cristiani. 

Oltre alla chiusura dei campi, il governo ha anche annunciato l’imminente costruzione di un muro lungo i 700 chilometri di confine con la Somalia. Non tutti però prendono sul serio questi progetti, in Kenya. Molti pensano che non si farà né una cosa né l’altra, che si tratta solo di una mossa politica per far vedere ai kenyani e agli investitori stranieri che qualcosa contro il terrorismo si fa; oppure che la minaccia di mandare via tutti i profughi sia intesa a farsi dare più fondi dall’Acnur e dai donatori internazionali. Sta di fatto che diverse Ong operative a Dadaab hanno incominciato a cercare uffici in affitto fuori del campo vicino al confine con la Somalia. 

Il dramma dei profughi di Dadaab e Kakuma è che il loro destino dipende, comunque sia, da alcuni dei governi più corrotti e inaffidabili del continente. Il presidente del Sudan è Omar al Bashir, accusato dalla Corte penale internazionale di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità per i massacri compiuti nel Darfur. La Somalia è in balia di un governo irresponsabile che continua a far dipendere il paese finanziariamente e militarmente dagli aiuti internazionali. I leader del Sud Sudan hanno combattuto per due anni una guerra insensata, con migliaia di morti, due milioni di profughi, danni economici miliardari. Pochi giorni fa quegli stessi leader hanno sì deposto le armi e formato un governo di unità nazionale, ma senza la minima garanzia che questa volta manterranno le promesse di pace, condivisione e trasparenza.