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DIPLOMAZIA

Il gran pasticcio dello "statu quo" di Gerusalemme

In occasione dell'incontro a Roma con papa Francesco, il presidente turco Erdogan rilancia il problema della condivisione di Gerusalemme tra ebrei, islamici e cristiani. Ma si richiama a risoluzioni Onu mai esistite. E la UE stanzia altri finanziamenti per l'Autorità Palestinese.

Esteri 06_02_2018
Erdogan dal Papa

Ora sono la Lega Araba e, a ruota, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, a risollevare il problema di Gerusalemme e a rilanciare il processo di pace israelo-palestinese; quest’ultimo nel ruolo che si è attribuito di “patron” del Vicino e Medio Oriente – sentendosi restauratore del potere che da Istanbul esercitarono per secoli nella regione i Sultani dell’impero ottomano – proprio alla vigilia della sua visita in Vaticano. La Turchia – ha detto infatti in un’intervista al direttore de “la Stampa” Maurizio Molinari – «è attore influente, affidabile e forte, la cui cooperazione è richiesta non soltanto nel Medio Oriente ma nel mondo intero»; e sottolineando che con papa Francesco «entrambi siamo per la difesa dello statu quo di Gerusalemme e abbiamo la volontà di tutelarlo».

Già lo statu quo (correttamente status quo). Non quello di cui tutti sapevamo, sancito nel febbraio 1852 dal “firmano“ (decreto) del sultano Abdul Majid, e tuttora in pieno vigore, che regola la convivenza delle varie comunità cristiane nei principali Luoghi Santi di condivisa proprietà (in particolare la Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme e la Basilica della Natività di Betlemme). Ma un nuovo statu quo vigente a loro dire a Gerusalemme, non fissato da alcun accordo internazionale e neanche invocato, ma soltanto evocato – o addirittura dato per acquisito nei fatti – da coloro a cui preme o conviene o vien ritenuto buono. Afferma Erdogan: «Lo statu quo su Gerusalemme dev’essere preservato sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite, assicurando a musulmani, cristiani ed ebrei di vivere in pace, fianco a fianco». Precisa quindi: «Mantenere lo statu quo, assicurare i Luoghi Santi di tutte e tre le religioni e riconoscere i diritti palestinesi è di assoluta importanza».

Siamo in piena confusione fra rivendicazioni e situazioni di fatto e queste ultime solo parzialmente riconosciute, ancorché evidenti: infatti chi le rappresenta rifiuta Gerusalemme come capitale dello stato d’Israele e si solleva contro il presidente degli Stati Uniti che, applicando una decisione del Congresso risalente al 1995, ha deciso il trasferimento della sua ambasciata da Tel Aviv. Di più, esige, paradossalmente, che Israele rinneghi, in un auspicato negoziato di pace, la legge fondamentale (costituzionale) del 30 luglio 1980 che ha proclamato Gerusalemme riunificata sua “capitale eterna”. Non solo, ma pure riconosca di non essere stato in grado di assicurare a musulmani, cristiani ed ebrei l’esercizio dei loro diritti religiosi a Gerusalemme. Quando sappiamo che così non è stato; che invece, sotto il potere islamico, non furono per nulla garantiti i diritti di ebrei e cristiani; e che, in epoche recenti, dopo tre guerre vittoriose dello Stato d’Israele sui paesi arabi e musulmani che le avevano dichiarate, le proteste, i disordini, le “intifade” nel nome di Gerusalemme sono state compiute da musulmani palestinesi in nome dell’esclusivo possesso islamico della Spianata ove sorgono le Moschee di El Aqsa e della Roccia, nella totale, ostinata, negazione che prima, vi sorgesse, il Tempio ebraico (fin dall’epoca di re Salomone, e in epoca romana strettamente legato alla vita di Gesù). 

Le risoluzioni delle Nazioni Unite, dopo le tre guerre arabo-israeliane del secolo scorso (1948, 1967 e 1973) , sono ancora al centro di divergenti interpretazioni nella comunità internazionale. Intanto non hanno mai esplicitato uno statu quo. E poi se c’è chi ritiene i territori occupati da Israele soggetti a particolari norme limitative dei diritti della nazione vincitrice; altri, invece, come l’Autorità Nazionale Palestinese, li considera semplicemente propri, fissandone addirittura i “confini” sulle linee di armistizio; e chi, soprattutto i paesi islamici, in base al diritto acquisito con la vittoria militare del califfo Omar nel 636 d.C. e poi da Saladino contro i Crociati, li ritiene di loro esclusiva proprietà “per sempre” . Diritto però negato a Israele, nel totale disinteresse, in effetti disprezzo, del Vecchio Testamento.

Entriamo così nel vivo della, diciamo “complessa”, questione di Gerusalemme. A rilanciare il negoziato di pace è stata il 1° febbraio la Lega Araba con la riunione al Cairo dei ministri degli Esteri del 21 paesi membri, verosimilmente su pressioni dell’Autorità Nazionale Palestinese che proprio il giorno precedente aveva ottenuto un nuovo forte sostegno politico e finanziario dell’ Unione Europea. Un tempismo rivelatore di “sospette complicità” che forzatamente ha aggiunto altri interrogativi sulla sostanza della mossa, di per sé gravida di equivoci e condizioni, da lasciare parecchi dubbi sul suo successo.

L’importante per la Lega Araba era di accreditare una sostanziale unità nella vexata quaestio di Gerusalemme, che ne è al centro e condiziona la ricerca di una qualsiasi intesa, proprio in questo tempo di laceranti divisioni fra i suoi paesi membri. Così nella precedente riunione – sempre al Cairo, dal 9 all’11 dicembre scorso – mentre falliva l’ennesimo tentativo dell’Arabia Saudita di far adottare una risoluzione che condannasse «l’Iran e le milizie arabe legate a questo paese», veniva espressa all’unanimità e carica di dure espressioni la condanna del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. Erano quindi ribaditi sia l’importanza della città per tutti gli arabi e musulmani sia il reale conseguimento dell’obiettivo dello Stato palestinese con Gerusalemme Est come sua capitale.

Ma la discussione si era impantanata sul come reagire concretamente, su quale strategia impegnarsi. Non essendoci stata alcuna intesa su sanzioni o ritorsioni contro Trump, si era optato per una nuova riunione entro il mese o, in difetto, di organizzare un “vertice” arabo in Giordania. Il tempo è così passato – 20 giorni di dicembre e il mese di gennaio – fino alla riunione del Consiglio ministeriale del 1° febbraio, all’indomani cioè della presa di posizione dell’Unione Europea, di sfida a Trump, che lo ha rinfrancato come non mai. Se la rappresentante UE per la politica estera, Federica Mogherini, aveva affermato che «niente si può fare senza gli Stati Uniti ma niente con i soli Stati Uniti», la Lega Araba, attraverso il suo segretario generale Ahmed Aboul Gheit, si è sentita in grado di sostenere che «la questione (di Gerusalemme) non può restare tra le mani di una sola parte», ovvero degli Stati Uniti.

Ed ecco la sua proposta: «Essendosi gli Stati Uniti ritirati da patrocinatori e mediatori internazionali del processo di pace» (la loro “decadenza” era stata unilateralmente proclamata dal presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas), «venuta a cessare l’esistenza dell’antico meccanismo, che oramai appartiene al passato», è necessario un «nuovo meccanismo internazionale multilaterale sotto la guida dell’ONU per rilanciare e patrocinare un processo di pace credibile». Da qui l’iniziativa di una Conferenza internazionale… «volta a implicare altri». Ma quando gli è stato chiesto come la Lega avrebbe reagito a un nuovo possibile coinvolgimento degli Stati Uniti, Gheit ha diplomaticamente affermato: «Non ci disturba». Poco prima, però, non aveva nascosto che alla Lega premono due cose: «Il riconoscimento dell’importanza di Gerusalemme per tutti gli arabi e musulmani ed il reale conseguimento dell’obiettivo dello Stato palestinese con Gerusalemme Est sua capitale».

In sintonia con l’Unione Europea. Infatti, accogliendo le proposte dell’AHLC ( il “Comitato di collegamento ad hoc”) la Commissione di Bruxelles ha varato un nuovo piano di aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese, dotata di altri aiuti, per 42,5 milioni di dollari, con l’esplicito intento di preservare il carattere arabo di Gerusalemme e sostenere la creazione di uno Stato palestinese accanto a quello d’Israele. Federica Mogherini ha detto testualmente: «La base e l’obiettivo del nostro impegno è e rimane la soluzione con due Stati, Israele e Palestina, con Gerusalemme futura capitale di entrambi». Interessanti le motivazioni: un terzo dei fondi, per 14,9 milioni di dollari, destinati ad «attività a Gerusalemme est per preservare il carattere palestinese della città e contrastare il preoccupante deterioramento degli indicatori socio-economici con una diffusa povertà». E 27,6 milioni di dollari per «sostenere la creazione di uno Stato palestinese democratico e responsabile, attraverso riforme mirate, consolidamento di bilancio, rafforzamento delle imprese e della società civile palestinese, e fornendo accesso ad acqua ed energia».

Ammontavano già a 359 milioni di dollari gli aiuti UE ai palestinesi, riferiscono fonti giornalistiche sottolineando come i nuovi siano stati decisi in aperto contrasto con il presidente degli Stati Uniti, che il 5 gennaio aveva decurtato, con motivazioni soprattutto politiche, l’equivalente di 125 mila euro gli aiuti all’UNRWA, l’agenzia ONU per i profughi palestinesi. Stando così le cose, in un contesto internazionale di aperta sfida europea a Israele e a Stati Uniti, c’è da chiedersi se mai potranno maturare le iniziative della Lega Araba e dove può condurre l’attivismo del presidente turco Erdogan.

L’obiettivo auspicabile e da perseguire per Gerusalemme sta, come da sempre sosteniamo, nel superamento dello statu quo e in un accordo – nella sostanza lo stesso che l’ONU aveva votato nel 1947 – che riconosca il carattere unico della città, santa per le tre religioni monoteiste ( la “sovranità divina”), dotandola di uno statuto internazionale che lo tuteli per sempre.