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Il cortocircuito dello Stato che lucra sulla prostituzione

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L’Istat ha assegnato un codice ATECO alla prostituzione, riconoscendole dignità fiscale. Un cortocircuito giuridico-morale, perché da una parte lo Stato vieta l’organizzazione della prostituzione e dall’altra parte ci guadagna.

Editoriali 10_05_2025
Milano, controlli Polizia di Stato prostituzione zona Greco (2018, LaPresse)

96.99.92. È un codice ATECO. I codici ATECO sono una classificazione delle attività commerciali al fine di individuarle esattamente. In parole povere, per il fisco, ogni attività commerciale ha un suo codice. Dall’1 aprile 2025 sono in vigore i nuovi codici così aggiornati dall’Istat. Il codice 96.99.92 concerne i cosiddetti “Servizi di incontro ed eventi simili”. Nella nota esplicativa si spiega che questi servizi includono, tra le altre, le attività di accompagnatori e di accompagnatrici (escort), la fornitura e organizzazione di servizi sessuali, l’organizzazione di eventi di prostituzione o la gestione di locali di prostituzione. Tutti coloro che svolgono queste attività potranno aprire la partita IVA e iscriversi alla Camera di Commercio.

Dunque, l’Istat riconosce dignità fiscale alla prostituzione. Ciò significa legittimarla sul piano giuridico? No, ma è un primo passo. La prostituzione in sé non è reato. È reato lo sfruttamento, anche su persona consenziente, l’organizzazione, l’induzione e il favoreggiamento della prostituzione. In questo quadro la prostituzione è una condotta tollerata dall’ordinamento giuridico, una condotta quindi da non disciplinare in alcun modo, né in senso repressivo né in senso legittimante, perché non riconosciuta dalla legge, una mera facoltà di fatto che, però, ha alcuni importanti riflessi antigiuridici, tanto è vero che, ad esempio, la sua organizzazione è appunto vietata.

Torniamo al codice 96.99.92. Il riconoscimento di uno status fiscale ad attività che esplicitamente configurano reato, quali la fornitura o l’organizzazione di servizi sessuali, l’organizzazione di eventi di prostituzione o la gestione di locali di prostituzione, è un illecito giuridico perché nessuna condotta penale può essere riconosciuta come attività commerciale a causa della quale occorre pagare le tasse. Solo le attività legittime sono degne di subire le imposte dello Stato. Sarebbe una contraddizione in termini pensare il contrario. Lo Stato potrebbe mai chiedere di pagare le tasse sui proventi di una rapina in banca? La compravendita di droga potrebbe mai essere gravata dall’IVA? Il falsario potrebbe mai aprire una posizione previdenziale presso l’Inps?

Quindi, è un vero e proprio cortocircuito quello creato dall’Istat: da una parte lo Stato vieta ad esempio l’organizzazione della prostituzione e su altro versante lo stesso Stato ci guadagna. Non può guadagnarci perché vietando una certa condotta esprime un giudizio etico su quella condotta, ritenendola contraria al bene comune, contraria a giustizia, quindi illegittima. Il riconoscimento di uno status fiscale, invece, implica a monte un riconoscimento giuridico di legittimità. E dunque risulta che ad esempio l’organizzazione della prostituzione sia da una parte legittima, perché ci devi pagare le tasse, e su altro fronte illegittima, perché considerata reato.

Si potrebbe obiettare che perlomeno la libera prostituzione della singola persona, non costituendo reato, potrebbe essere considerata ai fini fiscali e della previdenza sociale una vera e propria professione con tanto di partita IVA, insomma un onesto lavoro come tanti altri. Richiamiamo quanto scritto poco prima: il fatto che la prostituzione in sé non sia reato non significa che lo Stato la giudichi con favore. Se infatti l’ordinamento giuridico la considerasse una condotta confacente e addirittura arricchente il bene comune, non si comprenderebbe il motivo per cui ad esempio lo sfruttamento e l’organizzazione della prostituzione – in cui, in entrambi i casi, le prostitute fornissero i loro servizi con pieno consenso – siano qualificati come reati. Dunque, la ragione per cui la prostituzione in sé non viene sanzionata, ma l’organizzazione sì, sta nel fatto che, nella maggior parte dei casi, mettere dietro le sbarre la singola prostituta costituirebbe un’ingiustizia perché priverebbe della libertà una persona che è già schiava del racket della prostituzione, ma che non è nella possibilità di denunciare i propri aguzzini. Non servirebbe a nulla quindi sanzionare la singola prostituta, invece è assai necessario mettere in carcere chi sfrutta queste povere donne, chi ci guadagna, chi organizza le tratte. Ecco perché l’ordinamento giuridico tollera la prostituzione in sé, ma non la sua organizzazione.

Ciò detto, negli ultimi anni anche la fisionomia della prostituzione è cambiata. Sempre più donne mercificano il proprio corpo liberamente, senza essere sfruttate da nessuno. Una condotta altamente lesiva del bene comune e come tale meritoria di sanzione. Ci rendiamo conto che questo giudizio di carattere penale appare irrealistico oggi, in questa società sempre più orientata al libertinaggio dei costumi sessuali. La tendenza, infatti, non è quella di una stretta sulla prostituzione libera, bensì di una sua legittimazione, come hanno tentato più volte diversi partiti sinistrorsi in Parlamento e come indica, forse anche inconsapevolmente, l’Istat nel suo aggiornamento dei codici ATECO.