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IL CROCEFISSO A SCUOLA

Il "caso Lautsi", un tormentone durato quasi 10 anni

Tutto iniziò nel 2002 e nel 2007 il caso è arrivato in Europa. La prima sentenza in quella sede, del 2009, fu favorevole alla querelante. Oggi è invece finita in bellezza.

Attualità 18_03_2011
Il crocefisso a scuola

 

Oggi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso la storica sentenza d’appello definitiva a chiusura dell’ultimo grado di ricorso processuale sull’annosa questione relativa alla liceità di appendere o meno i crocifissi nella aule delle scuole italiane. Un verdetto, insomma, inappellabile.

La sentenza di oggi è giunta dopo un iter durato quasi dieci anni, che ha diviso l’opinione pubblica e acceso il dibattito anche - giustamente - politico.

Tutto nacque nell’oramai lontano 2002. In nome del principio della laicità dello Stato, una cittadina italiana di origine finlandese, Soile Lautsi Albertin, chiese all’istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre di Abano Terme, in provincia di Padova, frequentato dai suoi due figli, di togliere i crocefissi dalle aule. La direzione rispose negativamente e ogni successivo ricorso intentato dalla Lautsi Albertin venne analogamente respinto.

Quando, nel dicembre 2004, la Corte Costituzionale bocciò pure il ricorso presentato dal Tar del Veneto, tutto ritornò al Tribunale amministrativo regionale e questo, nel 2005, respinse ancora una volta l’ennesimo ricorso della querelante sostenendo che il crocifisso è simbolo della storia e della cultura italiana e quindi dell’identità stessa del Paese, anzi il simbolo stesso dei princìpi di eguaglianza, libertà, tolleranza e laicità che stanno alla base dallo Stato italiano. Anche il Consiglio di Stato confermò, nel 2006, questa medesima posizione.

Nel 2007 la Lautsi Albertin fece allora ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Questa, con una decisione pronunciata il 3 novembre 2009 da una Camera allora composta da sette giudici, diede ragione alla donna stabilendo che l’esposizione di un simbolo religioso - in teoria uno qualsiasi, ma in pratica (solo) il crocifisso - in un luogo pubblico, in specie nelle aule scolastiche, limita il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni così come il diritto degli studenti di credere o di non credere.

In nome della pretesa “neutralità” dello Stato in materia religiosa, con quella decisione senza precedenti la Corte si è cioè arbitrariamente arrogata il diritto di intervenire negli ordinamenti giuridici degli Stati europei, legiferando positivamente contro la coscienza e la libertà dei cittadini così come in aperta conflittualità con quanto stabilito sovranamente da ciascun Paese.

«La presenza del crocefisso, che è impossibile non notare nelle aule scolastiche - si legge infatti in quella sentenza - potrebbe essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso. Avvertirebbero così di essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data religione». Ciò «potrebbe essere incoraggiante per gli studenti religiosi, ma fastidioso per i ragazzi che praticano altre religioni, in particolare se appartengono a minoranze religiose o sono atei». Inoltre la Corte «non è in grado di comprendere come l’esposizione, nelle classi delle scuole statali, di un simbolo che può essere ragionevolmente associato con il cattolicesimo, possa servire al pluralismo educativo che è essenziale per la conservazione di una società democratica così come è stata concepita dalla Convenzione europea dei diritti umani, un pluralismo che è riconosciuto dalla Corte costituzionale italiana». In quella sede fu pure sentenziato che il governo italiano dovesse risarcire la Lautsi Albertin di 5mila euro per i “danni morali” subiti.

Vale peraltro la pena osservare che nell’emettere tale sentenza la Corte invocò l’articolo 2 del Protocollo n. 1 nonché l’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: il primo riguardante il diritto all’istruzione, il secondo il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Vale la pena notaro perché questi articoli della Convenzione, invocati dalla Corte per bandire il crocifisso, sono gli stessi che oggi invocano - cioè giudicano violati a proprio danno - decine di famiglie cristiane tedesche per difendersi dalla galera comminata loro nel momento in cui ritengono lesivo della dignità umana e contrario al proprio credo il sottoporre i figli agli “allegri” programmi di educazione sessuale che lo Stato impone a tutte scuole, persino a quelle confessionali, evitando quindi, in quei giorni, di mandare i ragazzi in classe.

A fronte della sentenza del 2009 sul crocifisso il governo italiano intervenne immediatamente, presentando, il 28 gennaio 2010, ricorso in appello. Al suo fianco presentarono ricorso anche Armenia, Bulgaria, Cipro, Grecia, Lituania, Malta, San Marino, Russia, Principato di Monaco e Romania. Il caso venne quindi affidato alla Grande Chambre, l’organo di detta Corte a cui spettano i pronunciamenti relativi a casi che sollevano grave questioni di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e questioni di importanza generale. Che la questione sia cioè di rilevanza fondamentale non sfugge ad alcuno.

Alla vigilia della discussione di Strasburgo, il 16 giugno scorso, la presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, ha affermato che «la presenza dei simboli religiosi e in particolare della croce, che riflette il sentimento religioso dei cristiani di qualsiasi denominazione, non si traduce in un'imposizione e non ha valore di esclusione, ma esprime una tradizione che tutti conoscono e riconoscono nel suo alto valore spirituale, e come segno di un'identità aperta al dialogo con ogni uomo di buona volontà, di sostegno a favore dei bisognosi e dei sofferenti, senza distinzione di fede, etnia o nazionalità», auspicando dunque « che nell’esame di una questione così delicata si tenga conto dei sentimenti religiosi della popolazione e di questi valori, come pure del fatto che in tutti i Paesi europei si è affermato e si va sviluppando sempre più positivamente il diritto di libertà religiosa, di cui l’esposizione dei simboli religiosi rappresenta un'importante espressione».

Dunque, il 30 giugno, la Grand Chambre
ha ascoltato, in seduta pubblica, le parti direttamente interessate ed esaminato le memorie presentate da “terzi”. Poi la lunga attesa della sentenza.
Opportuno è peraltro ricordare che, nel frattempo, la Corte italiana di Cassazione ha affrontato un altro caso assi specifico non privo di qualche assonanza se non altro culturale con il “caso Lautsi Albertin”. Vale a dire il caso del magistrato Luigi Tosti, rifiutatosi di svolgere regolare udienza in tribunale proprio per la presenza, sulla parete dell’aula, del crocifisso incriminato, e ostinatosi nell’interruzione del servizio anche dopo che gli era stata messa a disposizione un’aula di giudizio priva di simboli religiosi Tosti spiegava il proprio atteggiamento affermando che la presenza del crocifisso in altre aule avrebbe comunque leso i diritti di libertà religiosa degli utenti delle stesse. Il 14 marzo la Cassazione è dunque arrivata a sentenza e ha stabilito che, siccome non spetta al singolo individuo, nemmeno se magistrato, tutelare la laicità dello Stato o i diritti di libertà religiosa di altri soggetti, il rifiuto della prestazione lavorativa da parte di Tosti è ingiustificato. Né la persistenza del rifiuto può essere giustificata, come sostenuto dal magistrato, dalla negazione dell’autorizzazione a esporre nelle aule giudiziarie - in alternativa, volutamente polemica - la menorah, simbolo della religione ebraica. La Cassazione ha infatti rilevato che attualmente non esistono in Italia disposizioni legislative che consentano l’esposizione di simboli religiosi diversi dal crocifisso nei luoghi pubblici che si trovano sul nostro territorio nazionale.

Ora, sul piano strettamente giuridico questa decisione, proprio perché legata a un caso davvero specifico, è estensibile solo difficilmente a criteri di ordine generale. Nondimeno, essa evidenzia un orientamento assi chiaro nell’ordinamento giuridico italiano: proprio quello che con la sentenza del 3 novembre 2009 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo mostrò spavaldamente di voler ignorare e  calpestare nel “caso Lautsi Albertin”.

Oggi è stato dunque il giorno dell’epilogo. Il ricorso italiano ha vinto. Mostrare Gesù crocifisso ai nostri figli che sui banchi di scuola (pagati dalle nostre tasse) siedono per imparare qualcosina della verità delle cose - quel Gesù che pende crocifisso sul capo dei loro insegnanti - non è un reato grave da punire. Anzi, data la natura del tribunale giudicante, non è una lesione dei diritti umani.