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IL LIBRO

I classici ci avevano avvertito: il vostro io vi ucciderà

I classici sono nostri amici, scrive Machiavelli, perché sanno esprimere quello che anche noi viviamo e proviamo, le nostre stesse ansie e aspirazioni, l’ardore e la paura del vivere. E il nostro nemico di oggi è l'individualismo. Un libro di Raffaele Vacca ll finito nella luce dell’infinito, ce lo ricorda.

Cultura 25_07_2014
Il libro di Raffaele Vacca

I classici sono nostri amici e contemporanei, come scrive Machiavelli nella bellissima lettera al Vettori del 10 dicembre 1513, perché sanno esprimere quello che anche noi viviamo e proviamo, le nostre stesse ansie e le nostre aspirazioni, l’ardore e la paura del vivere, l’horror vacui e il desiderio dell’assoluto. «I classici», scrive Raffaele Vacca in Il finito nella luce dell’infinito. Percorsi di lettura attualizzata (edizioni Ares), «sono quei testi che vengono dal passato, e che nel leggerli, oltre al godimento, ci rivelano vita vivente, e nel rileggerli sempre qualcosa di nuovo […]. I classici possono aiutare a dare concrete risposte alle domande fondamentali dell’uomo: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Come vivo? Come debbo vivere? Aiutano a essere se stessi, a conoscere gli altri, a comprendere il finito nella luce dell’infinito e a guardare verso l’infinito conoscendo il finito. Hanno parlato agli uomini del proprio luogo e del proprio tempo; parlano agli uomini di ogni luogo e che si succedono nei tempi».

Schopenhauer ci ricorda che «esistono, in tutti i tempi, due letterature, che procedono una accanto all’altra quasi estranee fra di loro: una letteratura vera e propria e un’altra solo apparente. La prima crescendo diventa la letteratura permanente. La scrivono persone che vivono per la scienza o per la poesia». Questa letteratura procede lentamente e produce una dozzina di opere in un secolo nel Continente europeo. Sono quei testi che rimangono nel tempo e che abbiamo prima chiamato classici. «L’altra letteratura, esercitata da coloro che vivono della scienza o della poesia, va avanti al galoppo, con grande chiasso degli interessati, e annualmente mette sul mercato molte migliaia di opere», che non durano al tempo. 

Da Seneca a Leopardi, da Dante a Goethe, da Machiavelli a Chateaubriand, da Ibsen a Guardini, Raffaele Vacca mostra un amore per le grandi opere del passato che documentano che il cuore dell’uomo è immutabile. Seneca ci ricorda che non è la vita a essere breve, ma è l’uomo che spreca molto tempo con tante occupazioni, scordandosi ciò che davvero interessa all’io. Dante ci documenta che l’uomo non è nato per essere come i bruti, ma per «seguir virtute e canoscenza», consapevole di essere homo viator (viandante) verso la vera patria. Machiavelli testimonia lo strappo della modernità nei confronti del passato con una separazione del particolare dal tutto che apre la strada all’assolutizzazione del dettaglio. In altri termini, in questo modo, il fine può giustificare i mezzi in qualsiasi contesto, non solo in quello politico. Tre secoli più tardi Leopardi descrive il cuore dell’uomo immutabile, bramoso di infinito e anelante ad una felicità. Nel contempo, ne Il Parini ovvero della gloria il Recanatese racconta che le circostanze storiche mutano e possono diventare più difficili per chi aspira alla verità, alla bellezza e ad una gloria imperitura. Sono solo alcuni spunti che documentano l’immutabile dell’uomo nei grandi poeti. 

Le grandi opere hanno, però, in sé anche un valore profetico. Così, ora che sempre più si parla di crisi economica, culturale e umana, si può riscoprire che tanta letteratura aveva profetizzato questa situazione, proprio quella letteratura che dopo il boom economico degli anni Sessanta è stata abbandonata e relegata nelle biblioteche. Scriveva Paul Valéry nel 1919, appena terminata la prima guerra mondiale: «Noi, le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali». E aggiungeva: «Non è bastato alla nostra generazione imparare, attraverso la propria esperienza, che le cose più belle e più antiche […] sono anch’esse accidentalmente periture: questa nostra generazione ha visto prodursi, nell’ambito del pensiero, del senso comune e del sentimento, una serie di fenomeni straordinari, di brusche realizzazioni di paradossi, di brutali delusioni delle certezze». 

Nel mondo moderno si assiste al trionfo dell’individualismo, come ha ben indicato René Guénon ne La crisi del mondo moderno. L’individualismo è «la negazione di ogni principio superiore all’individualità. E, di conseguenza, la riduzione della civiltà, in tutti i suoi settori, ai soli elementi umani». Esso è la prima causa della decadenza dell’Occidente, «giacché non promuove spiritualità e vere intellettualità, ma […] lo sviluppo esclusivo delle possibilità più infime dell’umanità». Quell’individualismo che nel Settecento illuministico era presentato come fine dell’affrancamento dell’uomo dalla superstizione religiosa e dalle false autorità del passato appare sempre più come esito nefasto di una società che fatica a sollevarsi, ad aiutare il più debole, a collaborare per uno sviluppo buono e comune. 

La conseguenza di un individualismo vissuto nella tranquillità e nella finta pace domestica, che non considera l’altrui miseria e sopravvive nella dimenticanza di una giustizia per gli altri, è il disinteresse per l’ambito pubblico e per la politica. L’individualismo corrisponde così ad una torre d’avorio isolata che può prosperare solo fino a quando non arriveranno le «truppe degli invasori» scontenti. Già nell’Ottocento il saggista francese Alexis C. de Tocqueville (1805-1859) aveva profetizzato gli esiti di questa posizione: il declino della partecipazione, il disinteresse per la politica, lo statalismo che dissolve il valore delle associazioni e della sussidiarietà pongono la persona sola «di fronte al gigantesco Stato burocratico» e si verifica l’alienazione dalla sfera pubblica. Si accentua il circolo vizioso dell’individualismo narcisistico che si è costruito una dimora dorata in cui coltivare il proprio orto e assaporare le proprie ricchezze.

Ne Il tradimento degli intellettuali Julien Brenda sottolinea la distruzione della ragione nel mondo contemporaneo, che ha condotto all’irrazionalismo dominante oggi. José Ortega y Gasset afferma che l’avvento al potere delle masse caratterizza l’epoca odierna e «siccome le masse per definizione non possono né devono dirigere la propria esistenza e tantomeno governare la società, vuol dire che oggi l’Europa vive la più grave crisi che tocchi di sperimentare a popoli, nazioni e cultura». Per Ortega y Gasset massa «è tutto ciò che non valuta se stesso […], ma che si sente come tutti gli altri e tuttavia non se ne angustia». 

Neanche cinquant’anni dopo Pasolini scriverà: «Oggi […] l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» dell’ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana […]. Il Centro […] ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza». La nostra è un’epoca di massa «e si ritiene che si impari per sentito dire». Ma come scriveva Goethe: «In generale non si impara nulla per semplice sentito dire e chi non si impegna di persona nella pratica di certe cose le conosce solo superficialmente e a metà». I grandi geni sanno interpretare la propria epoca e sanno capirla, perché comprendono meglio degli altri le chiavi di accesso alla cultura coeva. Per questo, quasi sempre, non sono compresi dai lettori coevi, ma vengono apprezzati dai posteri.