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PENSIERI D'AUTUNNO

Guardiamo al fine della vita, per vivere bene la fine

Ricordo di un padre, di una sorella, di un novembre che invita a riflettere sulla morte. Esperienze vissute che ci dicono quanto siamo fatti per la vita. Eppure dobbiamo fare i conti con una cultura che ci spinge addirittura al suicidio e ci inganna anche sulle parole, come "fine vita"...

Editoriali 30_11_2019

Questo novembre, chissà perché, mi sembra più grigio e piovoso del solito. Effetto dell'età che avanza? Effetto "Greta" ed ecocatastrofismo? Non lo so, ma penso sempre più spesso alla morte e mi accorgo che stavolta è diverso, perché rimugino sulla "mia" morte.

Certo, ricordo gli amici, i parenti, le tante morti lontane e vicine.

Ricordo papà, in quella notte di novembre. La mia sorellina e io non l'abbiamo lasciato solo un minuto. Non sapevano fare altro che tenergli le mani e accarezzargli il viso piano piano.
La caposala del turno di notte ogni tanto faceva capolino, e ci sorrideva.
"Sentinella, quanto resta della notte?"
Verso l'una è tornata, con gli occhi umidi: "Volevo ringraziarvi, è la prima volta che vedo un anziano morire con i figli accanto....."
Alle due, un piccolo sussulto. Gli occhi azzurri aperti, guardando chissà cosa, ed è partito.

Ancora novembre, appena l'anno scorso. Questa volta era lei, la nostra sorellina. Con i suoi 57 anni, la sua fortezza, il suo eroismo di madre sola, per noi era sempre la piccola.
Dieci mesi di sofferenze portati con grande dignità, e sempre tesa a proteggere figlia e nipotine dall'ombra della morte. Fino agli ultimi dieci giorni di ospedale, quando ormai non era più possibile assisterla in casa.
Gli ultimi dieci giorni a lottare, a non arrendersi alla morte.
Volevamo trasferirla all'hospice, perché sia lei che noi potessimo affrontare quel momento in un ambiente più sereno e intimo. Non c'era posto .... e poi c'era lei, che non voleva: hospice = morte.
Il sacerdote dell'ospedale è venuto a trovarla, ma lei gentilmente ha detto di non averne bisogno: ospedale, sacerdote = "estrema unzione" = morte.
(Tra parentesi, quanta catechesi occorre ancora sui sacramenti!)

Quando all'hospice si è liberato un posto, e lei non era più in grado di opporsi, ormai era troppo tardi per trasportarla.
Siamo rimasti lì, ancora una volta impotenti, in quell'angolo di stanza appena protetto da una tendina. Se n'è andata nel culmine dell'orario di visita, mentre nella stessa camera altri parenti, più che giustamente, chiacchieravano e ridevano con i loro cari ammalati.
Un bacio in fronte per salutarla, ancora così bella.
E poi fuori, su e giù per il corridoio, aspettando che qualcuno ci dicesse cosa fare.
La portano fuori, con il suo letto, coperta da un lenzuolo e la testa avvolta in bende. Un cenno, e la seguiamo fino ad una stanza in fondo al corridoio, abbastanza lontana dalle altre (ma allora ci sarebbe stato un posto più "privato" dove morire). Piccola, bianca e completamente spoglia, la stanzetta ci avvolge e ci acquieta. Ci dicono che possiamo stare tranquillamente fino alla tal ora.

Sappiamo che sofferenza e morte fanno parte della vita. Nessuno può esserne esente.
Fin dall'inizio del mondo, ogni creatura nasce, vive e muore. Il filo d'erba, il fiore più bello, il cane di casa, tutti gli uomini. Si muore a qualsiasi età e condizione, si muore che lo si accetti o no. Anche Dio è morto. E non certo senza angoscia.

E allora, perché mi racconto in questa recente esperienza di morte, così unica e al tempo stesso così uguale a tante altre?
Perché anche se sappiamo di dover morire, la morte rimane qualcosa di profondamente  ingiusto. Perché non siamo stati creati per la morte, ma per la vita.
Perché " Dio ha creato l'uomo per l'immortalità, lo ha fatto a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo" (Sap 2, 23-24) e "tutta la creazione geme soffre fino ad oggi nelle doglie del parto, e nutre la speranza essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rom 20-22).

Perché Cristo ha vinto la morte. Anche se la liberazione piena deve ancora venire, anche se il nostro corpo deve ancora giacere e corrompersi nella morte. Risorgeremo.
E poi, perché, dopo che da molto tempo, con lo sguardo del pro-life, seguo la cosiddetta "dolce morte" insinuarsi strisciando nelle nostre vite, tra leggi e delibere, tra dibattiti e convegni, proprio in questo novembre è arrivata l'ultima sentenza.

Ora il medico, la struttura sanitaria, chissà, forse anche un semplice infermiere, ha la licenza di "suicidare" il paziente che lo chiede apertamente, o che forse in un passato lontano, di fronte all'immagine di invalido, ha detto di non voler vivere in quel modo. Meglio se mi fate morire. E dicendo così, ha dimostrato semplicemente di essere sano di mente. Perché nessuno vorrebbe "vivere così".

Ma quel momento può arrivare, per tutti.
Davvero vogliamo accanto un medico che ci aiuti a suicidarci? O non vorremmo piuttosto che qualcuno ci stia vicino e ci tenga la mano?
E dalla "licenza di uccidere", verrà prestissimo per il medico l'obbligo di uccidere. Dovrà farlo, dovrà "suicidare" il suo paziente. A meno che, in scienza e coscienza e in piena libertà, non trovi la forza di abbandonare camice, stetoscopio e siringa in fondo al letto, e uscire dalla porta e dalla sua professione a testa alta, piuttosto che compiere un atto di morte e venir meno al suo giuramento.

Un'ultima breve riflessione.
Parliamo del "fine vita", della legge "sul fine vita" ecc., sempre al maschile. Mi suona stonato, perché in realtà vogliamo parlare "della" fine della vita.
"Il fine" e "la fine" sono due concetti estremamente diversi.
Se pensassimo di più al fine vero della nostra vita, allora sapremmo viverne al meglio la fine, e senza bisogno di una legge che ci dica come morire.