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MALATTIA & PERSONA

Gli ospedali chiudono, i folli restano

La chiusura gli ospedali psichiatrici giudiziari è figlia dell'ideologia
che scarica sui più deboli il peso
della cura della persona malata.

Articoli tematici 14_02_2012
Carceri
Per i più entusiasti è la rivoluzione copernicana della psichiatria, per i sognatori una svolta epocale nella battaglia per i diritti umani. L’annunciata chiusura dei sei opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) attivi in Italia ci sta proponendo un catalogo interessante di reazioni che spaziano dall’epica all’agiografica basagliana.

In pochi però si sono chiesti se sia saggia la decisione di chiudere entro il 31 marzo 2013 le carceri per i “folli rei” senza però costruirvi attorno strutture che rispondano contemporaneamente a requisiti di terapia, sicurezza sociale e cura della persona.
Il dispositivo affida genericamente ad enti locali e Asl la gestione di strutture più ridotte per i malati considerati non più pericolosi, ma non entra nel merito di come queste debbano essere strutturate per rispondere a quei requisiti.

Sullo sfondo le parole del presidente Giorgio Napolitano che più volte ha definito gli opg una vergogna nazionale. Vergogna di fronte alla quale, secondo un modo tipicamente italiano si risponde nel modo più pilatesco possibile: anziché migliorare le strutture, meglio chiuderle. Via il dente via il dolore, secondo un procedimento già visto anni fa con la santificazione di Franco Basaglia e la legge 180.

Ma sarà davvero così? Chi conosce da vicino il dramma della follia sa che il confine tra sicurezza e pericolo è molto sottile. L’impressione è che ci troviamo di fronte un film già visto: quando entrò in vigore la legge 180 i manicomi vennero chiusi e si brindò alla rivoluzione, secondo una strana concezione della psichiatria per la quale la malattia mentale è frutto della società capitalistica e per guarirla basta reimmettere nella società chi ne è rimasto vittima.

Si sognarono case famiglia, strutture all’avanguardia protette in modo che al malato psichiatrico potesse essere offerto un percorso di reinserimento graduale e attento ai suoi bisogni. Ma l’Italia è il paese delle riforme a metà. Così, buttate via le chiavi dei maleodoranti casermoni dove la follia veniva umiliata e segregata, ci si dimenticò di applicare pienamente la riforma: il matto venne affidato, scaricato, sulle famiglie d’origine al motto egualitarista che il pazzo non è pericoloso, ma è la società che deve cambiare.

Quella società piccolo borghese che per Basaglia, pur animato da buona fede, era il principale ostacolo alla sua realizzazione. Iniziò così per tante famiglie un calvario che le vide in prima linea come vittime della riforma mentre il basaglianesimo veniva eretto a dogma della cultura marxista, secondo la quale non è l’uomo che è malato, ma la società che produce la lotta di classe.

Il matto divenne un Icaro antiborghese e la sua malattia il simbolo della dissidenza, mentre allo psichiatra veniva attribuito un ruolo demiurgico di promotore della rivoluzione. Intanto le famiglie, madri e padri umiliati quotidianamente vivevano nel silenzio delle pareti domestiche drammi, abbandoni e solitudini sedate a suon di psicofarmaci nell’indifferenza di quelle strutture che avrebbero dovuto occuparsi di quel problema chiamato uomo.

L’impressione, con questa decisione, alla quale mancano criteri applicativi, ma sulla cui copertura economica già si fanno balletti consolatori, è ancora una volta la dimostrazione che la politica ha abdicato al suo ruolo e scaricato sui deboli.
Perché prendersi cura di un malato mentale non vuol dire cambiare la società, ma mettere al centro prima di tutto la persona malata, come unica e irripetibile, con una psiche, un corpo e un contesto di appartenenza: un uomo, con una follia e una dignità. Non con una missione sociale da compiere.

Dunque: siamo di fronte ad un film già visto? La Bussola Quotidiana lo ha chiesto al professor Adriano Segatori, psichiatra dell’Asl di Gorizia autore del libro “Oltre l’utopia basagliana”. «Forse che la chiusura delle case chiuse ha eliminato la piaga della prostituzione? », si chiede Segatori, il quale sa che nel dibattito sulla chiusura degli Opg, dopo quel libro che infrangeva il mito del basaglianesimo come ideologia, il ruolo della Cassandra è suo.

Ben inteso: lo psichiatra non nega assolutamente la bontà della legge 180 laddove conferisce status di malato a quello che prima era un generico alienato rinchiuso, ma la sua testimonianza può  offrire uno spunto per comprendere come l’entusiasmo di molti partiti e dei media, sia eccessivo o possa portare ad un binario morto. Segatori ricorda che «non basta eliminare un dispositivo, perché il problema scompaia».

Qui il problema è quello di capire che cosa s’intenda per strutture alternative perché «non è che se le strutture non funzionano, queste vadano eliminate». E neppure «bisogna, come accaduto con l’ideologia basagliana, democratizzare la patologia, come si fece negli Stati Uniti quando dal manuale diagnostico statistico si tolse ai voti l’omosessualità come disturbo di identità».

Dunque la domanda fondamentale, che nasconde un timore più grosso è: «Parliamo di persone malate condannate per reati pesanti, dallo stupro all'omicidio seriale. Così, quando e se accadranno fatti gravi, ci si scaricherà la coscienza dicendo che la legge non è stata applicata in pieno?».

Il problema semmai è fare una valutazione su quante persone possono essere dimesse «tenendo però presente che una volta giudicato dimissibile un malato, cioè che su di lui è stato fatto il massimo che può ottenere una cura, questi rimane pericoloso: quindi che ne sarà di lui? ».

C’è poi un'insidia nelle competenze e nei costi: «Quelle poche strutture private attualmente alternative all’Opg costano 200 euro al giorno: il superamento dell’Opg deve presupporre anche questo ragionamento». E’ chiaro che, considerata come una chiusura puramente burocratica «la decisione del Senato si annuncia come una follia e un’utopia».

Che fare? «Meglio sarebbe eliminare tutte le forme di malversazione e potenziare le strutture dotando il personale di mezzi e strutture adeguate». Ma è evidente che il dibattito è filosofico, o meglio, quasi teologico dal momento che per «molti colleghi di “Psichiatria democratica", il basaglianesimo è un dogma politico e una fede».

Ecco che il rischio è fare della «sociologia irenistica» tramandataci dal basaglianesimo, che ha cercato di spiegare la complessità del disturbo psichico attraverso un corto circuito sociale, con il malato mentale simbolo di una società ingiusta e l’operatore psichiatrico un demiurgo rivoluzionario».

Segatori cerca dunque di sfatare il mito che «il matto deve essere guarito da quella società che ha provocato la sua tragedia», e si oppone ai rigidi schematismi secondo i quali al modello medico si è sostituito il modello sociale, con l’integrazione sociale al posto della cura medica, i diritti umani, al posto del prendersi cura.

«Il basaglianesimo - prosegue - si fondava solo sui diritti del paziente a entrare in società, ma senza il dovere di rispettare le regole e di assumersi le proprie responsabilità». Responsabilità che deve avere anche lo psichiatra quando ammette con umiltà «che non c’è niente da fare: questo non significa abbandonare la persona, ma non creare false illusioni».

Ultimo aspetto che vizia il dibattito è la contrapposizione tra l’impostazione basagliana «meccanicista» perché per Basaglia «l’uomo è un elemento la cui disfunzione è causata dalla società e dalla società deve essere guarito», contro il suo opposto, codificato dall’esasperazione secondo cui il problema cerebrale deve curarsi con i farmaci.

«In entrambi i casi manca la componente spirituale dell’uomo, la sua componente psichica, che c’è al di là della società e dei farmaci, che ha leggi proprie e che si affronta soltanto entrando in relazione con la persona sofferente e la sua unicità».