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WEB TAX

Dopo la condanna di Apple, tremano i colossi della Rete

Il 2016 si apre con una speranza per quanti hanno a cuore le sorti del mercato digitale. I colossi della Rete potrebbero versare finalmente al fisco italiano parte delle tasse non pagate per anni sui profitti realizzati nei nostri confini nazionali. Nei giorni scorsi, infatti, Apple Italia ha versato all’erario 318 milioni.

Economia 02_01_2016
Il logo della Apple

Il 2016 si apre con una speranza per quanti hanno a cuore le sorti del mercato digitale. I colossi della Rete potrebbero versare finalmente al fisco italiano parte delle tasse non pagate per anni sui profitti realizzati nei nostri confini nazionali. Nei giorni scorsi, infatti, si è creato un precedente: Apple Italia ha versato all’erario 318 milioni nell’ambito del procedimento che aveva al centro una presunta evasione fiscale sull’Ires di circa 879 milioni nei bilanci che vanno dal 2008 al 2013. Ora anche Google, Amazon, Facebook, Twitter e Microsoft, tanto per citare i principali soggetti dominanti in internet, potrebbero essere costretti a fare altrettanto. 

E sarebbe una svolta dopo anni di sterili polemiche, contrassegnate da una contrapposizione frontale tra chi vorrebbe punire a tutti i costi gli over the top, costringendoli a pagare le tasse ma anche il diritto d’autore sulle opere indicizzate, e chi ritiene che debbano essere esonerati da ogni obbligo giuridico, trattandosi di soggetti sovranazionali che peraltro contribuiscono ad arricchire la Rete con tanti servizi offerti gratuitamente e che stimolano il sistema imprenditoriale a produrre meglio e con maggiore competitività. In mezzo c’è la posizione moderata di chi, senza criminalizzarli, vorrebbe farli sedere a un tavolo di trattativa con editori e altri produttori di contenuti, anche audiovisivi, al fine di individuare insieme con loro dei meccanismi virtuosi di remunerazione della filiera di produzione e distribuzione dei contenuti stessi.

L’accordo tra il Fisco italiano e Apple prevede una procedura di ruling internazionale valida per cinque anni, che determinerà la percentuale delle imposte da versare in Italia e in Irlanda. Anche Google, che in Italia guadagna oltre un miliardo in pubblicità, la stessa somma incassata dalla totalità degli editori di giornali italiani, si accingerebbe a raggiungere un accordo con l’Agenzia delle Entrate e a restituire all’erario circa 150 milioni di euro. La Procura di Milano da oltre un anno sta stringendo d’assedio il colosso di Mountain View per costringerlo a pagare almeno in parte la quota di sistematica elusione degli ultimi anni. A differenza della società fondata da Steve Jobs, che ha accettato in toto le cifre emerse dai verbali redatti dagli agenti del fisco italiano, Google sarebbe intenzionata a trattare per spuntare una cifra congrua da pagare, sebbene il reato contestato alla filiale italiana del motore di ricerca californiano sia lo stesso imputato a Apple, cioè di essersi appoggiata su una società estera per pagare meno tasse in Italia, e l’importo evaso da Google sfiorerebbe il miliardo di euro totale, importo superiore a quello evaso dalla multinazionale di Tim Cook.

Pare che la somma totale delle tasse non pagate in Italia dai colossi della Rete ma anche da società multinazionali con sedi legali in altri Stati ammonti a 11 miliardi di euro. La cosiddetta web tax, secondo le stime del governo, potrebbe consentire di recuperare almeno 3 miliardi. D’altra parte il mondo di internet, secondo le prime proiezioni 2015, attira il 30% del mercato pubblicitario, che peraltro in generale non può dirsi certamente in buona salute. Gli introiti dell’advertising si stanno spostando sempre più verso l’on line e quindi occorre stabilire regole vincolanti per tutti gli attori che in Rete ottengono profitti attraverso l’erogazione di servizi e utilizzando contenuti a vario titolo prodotti da altri.

Ma il tema non può essere affrontato in una gretta visione nazionalistica. Secondo i dati dell’Unione europea, le maggiori multinazionali digitali del web generano infatti il 48% dei ricavi totali sui mercati extra-Usa e su tali ricavi pagano in media meno del 2% di tasse. Una situazione che va certamente riequilibrata, con politiche e decisioni sovranazionali. Ci sono, a onor del vero, rischi di contrazione degli investimenti da parte di questi colossi della Rete, ove si decidesse di tassarli oltre misura. Potrebbero, cioè, trovare non più conveniente continuare a stare in Italia o in altri Stati ad alta imposizione fiscale e migrare massicciamente in altri Stati extraeuropei. Ma in verità ci sono anche segnali contrari. 

In Francia, ad esempio, società come Facebook hanno incrementato i propri investimenti proprio quando il fisco ha iniziato a pretendere di più da loro. Le logiche del business, evidentemente, non sono così lineari e preventivabili. Resta, però, fermo il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge, che va applicato anche a questi soggetti, al fine di impedire il consolidamento di posizioni che sono già dominanti e che rischiano di compromettere gli storici equilibri che si sono creati sui diversi mercati delle opere creative.