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INGIUSTIZIA MONDIALE

Darfur, la Corte Penale Internazionale getta la spugna

Il Darfur è teatro di crimini di massa commessi dal Sudan. Ma la Corte Penale Internazionale, non arresta il dittatore Omar Bashir e sospende le indagini. Proprio mentre la missione Unamid sta indagando su un nuovo crimine.

Esteri 16_12_2014
Omar Bashir

Il 12 dicembre la Corte penale internazionale, Cpi, ha deciso di sospendere le indagini sui crimini di guerra compiuti nel Darfur, la regione occidentale del Sudan teatro dal 2003 di uno dei più cruenti conflitti armati africani. Nel dare l’annuncio, il procuratore generale Fatou Bensouda ha spiegato di non aver avuto altra scelta, vista la totale mancanza di collaborazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che, malgrado le ripetute sollecitazioni, finora non ha contribuito ad assicurare alla giustizia internazionale il presidente del Sudan, Omar Hassan al Bashir, principale responsabile delle violenze in Darfur per aver armato e sostenuto le etnie di origine araba contro quelle africane nell’ambito di un suo programma di arabizzazione del paese, prima già realizzato nel sud a costo di milioni di vittime. 

Il clamoroso abbandono delle indagini relative al Darfur segue di una settimana esatta l’archiviazione del processo contro il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, indagato dalla Cpi per crimini contro l’umanità commessi durante la crisi post elettorale 2007-2008. In quel caso la Corte ha motivato la propria decisione accusando il governo del Kenya di non aver consegnato documenti essenziali e di non aver garantito la sicurezza dei testimoni dell’accusa che hanno tutti rifiutato di presentarsi in aula a causa delle minacce e delle intimidazioni subite. 

Per quanto riguarda il presidente del Sudan, per cui è stato emesso un mandato d’arresto internazionale nel 2009 e uno nel 2010, per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, data per scontata la mancanza di collaborazione da parte delle autorità del paese, la Cpi ha invece puntato il dito contro le stesse Nazioni Unite e in particolare contro il Consiglio di Sicurezza dicendo senza mezzi termini che urge un cambiamento drastico nell’approccio dell’organismo la cui inazione rafforza i responsabili dei crimini commessi in Darfur e li incoraggia a continuare la brutale e spietata persecuzione della popolazione, delle donne in particolare. “Per me sta diventando sempre più imbarazzante comparire di fronte a voi e pretendere di aggiornarvi sulla situazione dal momento che non faccio che ripetere sempre le stesse cose – ha detto il procuratore generale Bensouda il 12 dicembre parlando al Consiglio Onu poche ore prima di sospendere le indagini – visto che il consiglio sembra non rendersi conto di quel che può succedere in Darfur, non mi resta che congelare le attività investigative e dirottare le risorse a mia disposizione su altri casi urgenti”.  

Che l’atteggiamento del Consiglio di Sicurezza possa cambiare è improbabile finché la Cina, uno dei cinque stati membri permanenti con diritto di veto, continuerà a sostenere il Sudan bloccando qualsiasi risoluzione contro il presidente al Bashir. 

Se anche la Cina cambiasse idea, resta il fatto che, al di là di una esortazione all’imputato a presentarsi spontaneamente e della imposizione di sanzioni, il Consiglio non ha strumenti per far sì che un presunto criminale compaia in aula e subisca un processo: così come non li ha la Cpi che in Sudan, come altrove, può solo sperare che si formi un’opposizione forte e determinata, in grado di prendere il potere e disposta a consegnare al Bashir, per disfarsene senza ucciderlo e senza rischiare, limitandosi a costringerlo all’esilio, un suo ritorno. 

Il Sudan, a differenza del Kenya, non ha neanche sottoscritto lo statuto costitutivo della Cpi e quindi non è vincolato da impegni nei suoi confronti. Al Bashir adesso si fa beffe dell’impotenza della Cpi e, come il collega Kenyatta, festeggia. All’indomani dell’annuncio, si è congratulato con il popolo sudanese per aver saputo resistere al tribunale “coloniale” che tentava di umiliare il paese: “la scorsa notte la Cpi ha alzato le braccia – ha dichiarato il 13 dicembre – e si è arresa al popolo sudanese che le ha tenuto testa: nessun sudanese si piegherà mai ai tribunali coloniali all’Aja o altrove”. 

Non solo fallisce dunque il progetto di rendere giustizia alle vittime di criminali spietati, ma la Cpi ottiene, incriminandoli, il risultato di rafforzare i leader che vorrebbe giudicare. Durante la campagna elettorale che lo ha visto vincitore lo scorso anno, Uhuru Kenyatta ha usato la “persecuzione” della Cpi per moltiplicare con successo i suoi elettori, appellandosi alla dignità del popolo kenyano e al suo diritto di autodeterminarsi escludendo ingerenze esterne. Benché in Darfur la guerra abbia già fatto circa 300.000 vittime e nel corso degli anni abbia provocato esodi di popolazione nell’ordine di alcuni milioni, tra sfollati e profughi, il prestigio di al Bashir agli occhi di molti suoi connazionali è destinato a crescere, almeno nel breve periodo.

Per di più la disfatta della Cpi giunge in un momento particolarmente critico. Il mese scorso il governo sudanese ha ordinato alla Unamid, la missione di peacekeeping in Darfur avviata nel 2007 dall’Onu e dall’Unione Africana, di chiudere al più presto il proprio ufficio per i diritti umani a Karthoum, la capitale. L’ingiunzione è la risposta al tentativo della Unamid di indagare su un caso di stupri di massa verificatosi nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre a Tavit, un villaggio del Darfur, di cui sarebbero responsabili le truppe governative. Gli ispettori dell’Onu avevano ottenuto il permesso di visitare il villaggio solo dopo molti giorni, di fatto senza riuscire a indagare per la massiccia e minacciosa presenza di militari che ha indotto la popolazione al silenzio. Dalla ricostruzione dei fatti, tuttavia, sembra che i militari, convinti che un loro compagno fosse stato rapito e forse ucciso nel villaggio, abbiano punito la popolazione violentando oltre 200 donne, molte delle quali giovanissime.