D’Annunzio, il cibo come celebrazione dell’eccesso
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Per il Vate, il cibo non è mai semplice nutrimento: è rito, è arte, è seduzione. Al Vittoriale ogni pasto è una rappresentazione. Un’eredità presente nella cucina contemporanea. Ma l’ossessione decorativa rischia di minare l’autenticità e bellezza del convivio.

Figura eclettica e, al contempo, eccentrica, poliedrica e versata in diversi campi, Gabriele D’Annunzio (1863–1938) è l’artista con cui tutti i contemporanei si devono confrontare. Poeta, romanziere, drammaturgo, pubblicista, sceneggiatore, pilota, soldato, amante e abile promotore di sé, il Vate è il protagonista assoluto della Belle Époque italiana, ma anche il riflesso inquieto di un’epoca che, sotto la patina dorata dell’estetismo, cela il vuoto dell’anima. E il cibo, nella sua opera e nella sua vita, non è mai semplice nutrimento: è rito, è arte, è seduzione.
Il cibo come celebrazione dell’eccesso
Se in Verga il cibo è misura della miseria, in D’Annunzio diventa celebrazione dell’eccesso. Il pasto non è mai quotidiano, ma sempre scenografico. Il poeta non mangia: assapora, contempla, trasfigura. Ogni ingrediente è scelto con cura, ogni gesto è coreografato. Il pranzo è un atto estetico, un momento di elevazione sensoriale, dove il gusto si fonde con la visione, il tatto, il suono.
Il pranzo come opera d’arte
Anche nella vita reale, D’Annunzio trasforma il cibo in spettacolo. Al Vittoriale, la sua dimora monumentale affacciata sul Garda, ogni pasto è una rappresentazione. Piatti decorati, porcellane pregiate, menù scritti in versi, stoviglie scelte per armonizzarsi con le tappezzerie: nulla è lasciato al caso. Il poeta ama il caffè turco, il cioccolato fondente, le marmellate di agrumi, ma soprattutto ama il gesto del mangiare come atto teatrale.
Il pasto è un’opera d’arte totale. Il cibo è parte della sua mitologia personale, della sua costruzione dell’homo divus. Al Vittoriale D’Annunzio fa progettare per gli ospiti un ambiente per il pranzo, la Sala delle Cheli, dai vivaci colori, ornata di oggetti decorativi e di opere d’arte: statue e piatti incisi con motti dannunziani la abbelliscono creando un’atmosfera suggestiva. La sala è così chiamata per la presenza di una tartaruga in bronzo, realizzata da Renato Brozzi con il carapace di una vera tartaruga (Carolina), regalo della marchesa Luisa Casati Stampa all’artista. La tartaruga morì un giorno per aver ingerito troppe tuberose. Ora la scultura posta nella sala da pranzo è severo monito agli ospiti contro l’eccesso del cibo.
Curiosamente, D’Annunzio non pranza in questa sala che è riservata agli ospiti. Il Vate preferisce consumare i pasti in solitudine, in ambienti più raccolti, come l’«Officina» o la «Zambra», dove può contemplare il cibo come gesto privato, rituale e artistico. Anche nel convivio, D’Annunzio mantiene la distanza tra sé e gli altri, come un regista che osserva la scena senza mai calcare il palcoscenico.
Ma proprio questa storia, al tempo stesso poetica e inquietante, ci ricorda anche il rischio insito nell’estetizzazione assoluta del nutrimento: quando il cibo diventa immagine teatrale e scenografica, può perdere il suo senso originario. La bellezza, se non temperata dalla misura, può diventare inganno. E l’arte del convivio, se trasformata in ossessione decorativa, rischia di smarrire la sua anima più autentica: quella del piacere condiviso, del mangiare insieme.
Il cibo come rito di seduzione
Nel romanzo Il Piacere, Andrea Sperelli incarna l’esteta dannunziano: raffinato, sensuale, sempre alla ricerca di nuove sensazioni. Le cene con Elena Muti sono veri e propri tableaux vivants, dove ostriche, champagne e frutti esotici si alternano in un crescendo di voluttà. Il cibo diventa linguaggio erotico, preludio alla seduzione, estensione del corpo. «Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte», dice Sperelli, e anche il pasto diventa parte di quell’opera.
Nessuno incarna questa visione meglio della marchesa d’Ateleta, cugina di Sperelli, figura mondana e regina delle eleganze romane, che trasforma ogni banchetto in un’opera d’arte effimera. Le sue invenzioni, come le catene di fiori sospese tra i candelabri, i vasi di Murano opalescenti con una sola orchidea, diventavano subito tendenza, propagandosi come onde di bellezza tra le tavole dell’aristocrazia romana. Il dessert, apice del rituale, è il vero lusso: cristalli e argenti incorniciano frutti rari, dolci preziosi, composizioni che deliziano la vista prima ancora del palato.
In questo scenario, il cibo non è solo materia: è mitologia, sensualità, evocazione. La leggera eccitazione erotica che aleggia al termine del pranzo, tra donne, fiori e memorie di fiere mondane, è il segno più evidente che, in D’Annunzio, il pasto è rito di seduzione, preludio al desiderio.
La celebrazione del cibo
Nella prima raccolta delle Laudi, intitolata Maia e sottotitolata Laus Vitae («lode della vita»), il poeta celebra la vita attraverso i suoi sapori: «Io amo il pane, il vino, l’olio, il sale, le cose semplici e divine». Ma anche qui, la semplicità è trasfigurata. Il pane non è rustico, ma sacro. Il vino non è bevanda, ma sangue della terra. L’olio è luce, il sale è sapienza. Ogni alimento è carico di simboli. Ogni pasto è come un rito pagano. D’Annunzio non descrive il cibo: lo canta.
Il gusto come memoria
Nel Notturno, scritto almeno in parte in condizioni di cecità temporanea, il poeta affida alla memoria sensoriale il compito di evocare il mondo. Il cibo diventa ancora una volta ponte tra corpo e spirito. Il ricordo di un pasto condiviso, il profumo di un’arancia sbucciata, il sapore di un pane caldo: tutto si mescola alla nostalgia, alla riflessione, alla poesia. Il gusto è anche memoria. In assenza della vista, il tatto e il gusto diventano strumenti di conoscenza. Il poeta tocca il mondo con la lingua, lo ricostruisce con il palato.
L’eredità dannunziana nella cucina contemporanea
Oggi, la cucina contemporanea riscopre l’eredità dannunziana non tanto nei piatti, quanto nell’idea che il cibo possa essere esperienza sensoriale totale. La gastronomia molecolare, le cene immersive, le degustazioni multisensoriali: tutto questo è figlio, in qualche modo, di quella visione che unisce arte e gusto. Anche un semplice piatto di tagliolini al limone può diventare poesia.
I ristoranti che curano la mise en place, la luce, il suono, il ritmo del servizio, stanno inconsapevolmente seguendo la lezione del Vate, per cui il cibo non si consuma, ma si contempla. Nel mondo dannunziano, il cibo è sempre bellezza. È il profumo di una pesca matura, il colore di un melograno aperto, il suono di un bicchiere che tintinna. La cucina letteraria, in questo caso, non racconta la fame: racconta il desiderio. E ci insegna che anche un pasto può essere arte, se vissuto con occhi da artista.
Il sapore della miseria: Verga e la fame del popolo
Nel Verismo, il cibo non è mai decorativo. Dai lupini ai pani neri, dalle acciughe salate al vino, ogni alimento è carico di senso e di destino.