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I SEQUESTRI DI BOKO HARAM

Cerimonie e hastag, ma sempre più le ragazze rapite

Un anno fa, nella notte tra il 14 e il 15 aprile, quasi 300 studentesse di età compresa tra i 16 e i 18 anni, in prevalenza cristiane, venivano rapite dai jihadisti Boko Haram, sorprese nel sonno nei dormitori della loro scuola a Chibok, una città dello stato nord orientale di Borno. Nessuna finora ha fatto ritorno a casa.

Esteri 15_04_2015
Il capo dei guerriglieri di Boko Haram

Un anno fa, nella notte tra il 14 e il 15 aprile, quasi 300 studentesse di età compresa tra i 16 e i 18 anni, in prevalenza cristiane, venivano rapite dai jihadisti Boko Haram, sorprese nel sonno nei dormitori della loro scuola a Chibok, una città dello stato nord orientale di Borno. A parte quelle salvatesi saltando giù da uno degli autocarri su cui erano state caricate, approfittando di un rallentamento del convoglio che le stava portando via, nessuna finora ha fatto ritorno a casa.

Tre settimane dopo, il 5 maggio 2014, il leader del gruppo, AbubakarShekau, in un filmato aveva annunciato l’intenzione di venderle, confermando la notizia in circolazione già dal 29 aprile che i terroristi le stessero offrendo come mogli a dei combattenti islamici, al prezzo di 12 dollari. Una settimana più tardi un altro video mostrava gran parte delle studentesse vestite con il velo islamico, il niqab, e intente a pregare: perché – spiegava Abubakar Shekau –«tutte le ragazze cristiane si sono convertite all’Islam». Era parso allora che si potesse aprire una trattativa – la loro liberazione in cambio del rilascio dei miliziani Boko Haram prigionieri – ma così non è stato. 

A un anno dal loro rapimento, la Nigeria e il mondo le ricordano con una serie di cerimonie. A New York l’Empire State Building la sera del 14 aprile è stato illuminato di rosso e porpora: rosso come il colore della campagna #BringBackOur Girls (restituiteci le nostre ragazze), lanciata lo scorso maggio dal Premio Nobel pakistano Malala Yousafzai, e porpora, per reclamare la fine delle violenze contro le donne. Nella capitale della Nigeria, Abuja, il 13 aprile è stata organizzata una manifestazione di protesta per l’inerzia del governo. I partecipanti hanno sfilato con la bocca coperta da nastro adesivo rosso per ricordare che le ragazze rapite non hanno voce. Il giorno successivo si è svolto un corteo al quale hanno partecipato 219 ragazze, tante quante sono, ufficialmente, le studentesse mai più ritrovate. I bambini di una scuola elementare della capitale vestiti di rosso hanno sfilato ciascuno sventolando una bandierina con il nome di una delle studentesse rapite e cantando, sull’aria di una celebre canzone di John Lennon, All we are saying is bring back our girls. Now and alive! (solo questo diciamo: restituiteci le nostre ragazze, subito e vive)

Il generale Muhammadu Buhari, neo presidente, dopo la vittoria elettorale del 28 marzo, ha promesso di non desistere dal tentativo di salvarle pur ammettendo che potrebbero non essere mai liberate: «per quanto lo desideri», ha dichiarato, «non posso promettere che riusciremo a trovarle. Ma dico a tutti i genitori, i parenti e gli amici delle ragazze rapite che il mio governo farà tutto il possibile per riportarle a casa». Ma la sfiducia nei confronti delle autorità è palpabile, nonostante l’avvicendamento al potere dopo la sconfitta dell’ex presidente Goodluck Jonathan e del suo partito. Molti sono in effetti gli interrogativi finora rimasti senza risposta: persino il numero esatto delle studentesse rapite non è mai stato precisato.  Soprattutto, pesa il fatto che, lungi dal salvarle, dall’inizio del 2014 il governo e il suo esercito hanno permesso che altre 2000 bambine, adolescenti e donne venissero rapite da Boko Haram che le usa come inservienti, schiave sessuali, combattenti e forse anche come bombe umane negli attentati dinamitardi.

Proprio a partire dal rapimento delle studentesse, Boko Haram, inoltre, cambiando tattica, oltre agli attentati e agli attacchi con cui fino ad allora aveva seminato il terrore nel nord est del Paese, ha iniziato una guerra di conquista, riuscendo a impadronirsi di un territorio molto esteso, comprendente decine di città, su cui lo scorso agosto ha istituito un Califfato. Poi, un mese fa, pur costretto a ritirarsi da alcune città in seguito all’intervento militare di Ciad, Camerun e Niger a sostegno dell’esercito nigeriano, ha proclamato fedeltà allo Stato Islamico e al califfo al Baghdadi. Malala Yousafzai ha inviato un messaggio alle studentesse di Chibok in cui le esorta: «siate forti, non perdete mai la speranza». Altri l’hanno imitata. Ma qualcuno ricorda che il suo hashtag, #BringBackOur Girls, un anno fa, adottato da centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, non ha portato risultati e anzi ha reso i terroristi più arroganti e audaci. Avevano annunciato azioni che avrebbero fatto parlare di loro tutto il mondo: e con i suoi hashhtag il mondo li ha accontentati al di là delle più ambiziose aspettative, tanto che persino il Papa, la moglie dell’uomo più potente del mondo, il premier dell’ex potenza coloniale britannica e la di lui consorte si sono uniti al coro di chi pregava di liberarle. «Ma le abbiamo già liberate», era stata l’arrogante risposta di Boko Haram, «erano cristiane e adesso si sono convertite all’Islam». 

Un giornalista nigeriano, Ahmed Salkida, noto per i suoi stretti contatti con i capi di Boko Haram, il 14 aprile ha dichiarato alla Bbc che le ragazze di Chibok sono vive e stanno bene, hanno abbracciato gli ideali di Boko Haram e per questo sono ben volute e ben protette dalla leadeship del gruppo jihadista.