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L’ENCICLICA

Centesimus annus: rimettere al centro Dio giova all’uomo

Il prossimo 1 maggio ricorre il 30° anniversario della Centesimus annus, enciclica sociale di Giovanni Paolo II. Il cuore del documento, che pure parla dell’uomo come “via della Chiesa”, è costituito dalla centralità di Dio anche nelle questioni sociali, che si possono veramente risolvere solo con Lui. Il senso è quindi nel solco dell’“aprite le porte a Cristo!” della prima omelia di Wojtyla da pontefice.

Ecclesia 15_03_2021

Quest’anno l’enciclica sociale di Giovanni Paolo II Centesimus annus celebrerà il proprio trentesimo compleanno. Porta infatti la data dell’1 maggio 1991. Si avrà modo di parlare di questo importante testo del magistero sociale della Chiesa, ma può essere utile già fin d’ora chiedersi la cosa fondamentale: qual è il cuore dell’enciclica? In cosa consiste il suo messaggio essenziale e centrale? Cos’è il pilastro che regge tutto il suo discorso?

La Centesimus annus ha un contenuto molto ricco. Innanzitutto essa celebra il centesimo anniversario della Rerum novarum (1891-1991) alla quale dedica il primo capitolo. Secondariamente si occupa dei grandi fatti del 1989, il crollo del muro di Berlino e del comunismo sovietico nell’Europa orientale. Poi si chiede se questo voglia significare la vittoria del sistema occidentale. Infine tratteggia le forme dell’impegno della Chiesa nella società prossima ventura. Sono anche da ricordare importanti affermazioni sulla natura della Dottrina sociale della Chiesa.

I temi, quindi, sono molti, ma qual è quello fondamentale? Siccome l’ultimo capitolo dell’enciclica ha per titolo “L’uomo è la via della Chiesa” (espressione che deriva dalla prima enciclica di Giovanni Paolo II, la Redemptor hominis) si potrebbe pensare che l’argomento principale sia l’uomo e che la Centesimus annus sia espressione, anche se moderata, di una “svolta antropologica”. È vero che nell’enciclica, come del resto in tutto il magistero di Giovanni Paolo II, il personalismo c’è, pur nello sforzo di incentrarlo sempre in Cristo, ma sono del parere che esso non sia il cuore della Centesimus annus, cuore che, invece, è costituito dalla centralità di Dio anche nelle questioni sociali. Il cuore rimane il grido “aprite le porte a Cristo!” della prima omelia da pontefice.

Questo risulta prima di tutto da come la Centesimus annus considera la Dottrina sociale della Chiesa. Questa è “annuncio di Cristo nelle realtà temporali”, componente essenziale della “nuova evangelizzazione”, elemento essenziale della “missione evangelizzatrice” della Chiesa, “parte essenziale del messaggio cristiano” del quale “propone le dirette conseguenze nella vita della società”. L’enciclica ribadisce, con la Rerum novarum, che “non c’è vera soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo”. La Centesimus annus conferma quindi la pretesa cristiana di non essere un semplice nuovo umanesimo e di non dover mendicare dal mondo le verità da annunciare e da incarnare.

Per questo motivo la Centesimus annus ricorda che la Rerum novarum ha conferito alla Chiesa uno “statuto di cittadinanza nelle mutevoli realtà della vita pubblica”. Per “statuto di cittadinanza” si deve intendere l’esercizio essenziale e non accidentale di un ruolo pubblico, collegato con la missione evangelizzatrice della Chiesa. Questa, se ha come “via” l’uomo, si fonda però su Dio Salvatore in quanto la Dottrina sociale “inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo salvatore”. Questo punto non viene detto fino in fondo con le modalità di Leone XIII e talvolta il linguaggio ondeggia, come quando l’enciclica rivendica il diritto al riposo festivo come culto pubblico dovuto della maestà divina, fondandolo poi sulla libertà di religione. Non si può negare, tuttavia, che la centralità di Dio sia affermata.  

Certamente la Centesimus annus parla dell’uomo “via della Chiesa”, dice che il proprio scopo è la “difesa dell’uomo”, ma precisa e conferma che essa “riceve il senso dell’uomo dalla divina rivelazione”, che “l’antropologia cristiana è in realtà un capitolo della teologia”, che “la dimensione teologica risulta necessaria sia per interpretare che per risolvere gli attuali problemi della convivenza umana”. Quando essa parla dell’uomo non dimentica mai di esprimere la sua “trascendente dignità”, rimandando quindi ad un fondamento della dignità umana che non sta nell’uomo ma in Dio: “È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità”.

La centralità di Dio (e non dell’uomo) è presente nell’enciclica anche in forma negativa. Il sistema comunista è crollato non primariamente per motivi economici o politici ma perché ha preteso di “sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell’uomo, ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirci senza sconvolgere il cuore”. Giovanni Paolo II parla di un “errore antropologico” del comunismo, ma vuol significare che esso è in fondo un errore teologico: “il vuoto spirituale provocato dall’ateismo”. L’alienazione vera è la mancanza di Dio. Il totalitarismo “nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo”, quindi del suo fondamento oggettivo ultimo che è Dio, senza il quale la libertà si libera dalla verità e diventa così totalitaria.

La Centesimus annus contiene molte affermazioni di teologia della cultura, condotte in modo molto diverso da quanto faccia la Chiesa oggi. E anche qui si nota la centralità non dell’uomo ma di Dio. Certamente “l’uomo è compreso se viene inquadrato nella sfera della cultura”, ma “al centro di ogni cultura c’è l’atteggiamento che l’uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio”.

In questo 2021 che segna il trentennale della Centesimus annus occorrerà riscoprire la centralità di Dio e quindi la Dottrina sociale come missione della Chiesa e non come semplice animazione sociale delle coscienze nella società pluralista. L’uomo è la via della Chiesa, dice la Centesimus annus, ma “solo la fede gli rivela pienamente la sua identità”, e la Chiesa si propone di assisterlo ”nel cammino della salvezza”.