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LA RIFLESSIONE

Campiti, la rabbia non giova. Solo il perdono guarisce

La storia di Claudio Campiti, l’uomo che ha ucciso quattro donne, dimostra cosa possono fare l’odio e il rancore covati per anni. Una vicenda dall’epilogo ben diverso da quello vissuto da Carlo Castagna, che trovò la pace, grazie alla fede, perdonando gli artefici della strage di Erba. La giustizia umana deve fare il suo corso ma solo il perdono salva dalle tenebre.

Editoriali 16_12_2022
Il luogo della strage di Fidene

A leggere storie come quella di Claudio Campiti, l'uomo che ha ucciso quattro donne nel corso di una riunione di condominio in un bar a Roma, si rischia di pensare che così, dal nulla, un uomo in preda all'ira sia capace di atti simili. In realtà la storia di Campiti dimostra cosa possono fare l'odio e il rancore covati per anni e anni. Dice insomma cosa può succedere quando ci si lascia consumare dalla rabbia, quasi alimentandola compulsivamente.

Campiti viene descritto dai media come una persona scontrosa, sempre in protesta con il sistema, incapace di tenersi un lavoro, facile al litigio, alle minacce e agli insulti. All'inizio tutto pareva essere nato dal conflitto con il consorzio di cui faceva parte per l'impossibilità di ricevere gli allacciamenti alle reti fognarie nello scantinato in cui viveva in maniera precaria. Solo poi è emerso che invece il risentimento di Campiti veniva da molto più lontano. Dice l'Ansa: «Dalla morte di suo figlio nel 2012 in un incidente di montagna in Alto Adige, Claudio Campiti [...] non era stato più lo stesso. Nelle zone del Reatino dove abitava la storia era nota. Ma nessuno avrebbe potuto immaginare che [...] il suo crescendo di rabbia, disperazione e paranoia nei confronti del Consorzio dove viveva in condizioni "al limite" sarebbe culminato in un delitto atroce».

Dopo la morte del figlio quattordicenne, Romano, Campiti aveva smesso di fare il suo lavoro di commercialista e aveva passato il tempo a lottare per il riconoscimento dell'omicidio dovuto allo schianto contro un albero di una pista di neve troppo pericolosa. Aveva anche lottato affinché venissero emanate norme di sicurezza sulle piste. Spiega il Corriere: «Dopo la prima discesa, Romano espresse il proprio timore per l’apparente pericolosità del tracciato, ma il maestro lo rassicurò, e così il ragazzo si convinse a imboccare la pista una seconda volta. Che, però, gli fu fatale: Romano si schiantò contro un albero a bordo pista, morendo. Campiti non prese mai parte al processo penale, ma intentò una causa civile, ottenendo un risarcimento da 270 mila euro [...]. Eppure, Campiti si fece conoscere in Alto Adige per la sua battaglia a favore della sicurezza sulle piste da slittino [...]. Aveva scritto ai giornali e al governatore, arrivando, il 9 dicembre 2013, a incatenarsi davanti agli uffici provinciali di piazza Magnago, accendendo una serie di lumini e portando con sé una foto del figlio Romano. E in qualche modo, la sua battaglia la vinse. Sia perché i giudici riconobbero che, nonostante il vuoto normativo a livello locale, la legge quadro nazionale (la numero 363 del 2003) andasse applicata, sia perché, nel frattempo, è stato emanato un decreto legislativo in materia di sicurezza nelle discipline sportive invernali (il numero 40 del 2021)».

Campiti non aveva comunque trovato pace. Anzi, aveva probabilmente riversato la sua rabbia e il desiderio di giustizia, inappagato anche dalla sentenza a suo favore (ché un figlio non te lo ridà in vita), nella lotta legale relativa alla sua abitazione.

Che differenza fra questo epilogo e quello legato alla nota strage di Erba del 2006. Cominciata proprio con un omicidio seguito a liti condominiali violente (dove i responsabili si sono sempre sentiti le vittime del caos generato dalla famiglia trucidata) finì con il perdono del marito, padre e nonno delle vere vittime, Carlo Castagna. «È arrivato il momento di perdonarli - disse Castagna ai giornalisti - l’odio non porta da nessuna parte». Dieci anni dopo la strage si vide l'esito di questa scelta, che l'uomo raccontò così nel 2016, appena due anni prima di morire: «La mia sofferenza è quella di sempre. Non ho perso un punto. Ma in questi dieci anni ho avuto il sostegno della fede. Sono sereno con me stesso, in pace con il mondo. Anche con quei due ragazzi».

Non pochi si scandalizzarono di Castagna, quasi fosse un affronto perdonare gli assassini, peraltro non pentiti. Spesso anche perché si pensa che buttare fuori la rabbia serva a liberarsene, che sia un diritto quindi. Ma invece accade l'opposto. La suocera di Castagna, Lidia, la prima a perdonare, spiegò: «Il dolore aumenta se si continua ad odiare. Vivendo nel rancore, col passare del tempo ci si indurisce e la vita diventa insopportabile. Chi non perdona soffre tanto di più perché non vede alcuna speranza, non mette mai fine al suo patimento, sul fuoco del dolore getta benzina che lo fa stare sempre peggio». In sostanza ogni opposizione della realtà diventa fonte d'ira. La realtà nemica. La differenza fra Campiti e Castagna è tutta qui.

Eppure il termine perdono dà fastidio a quella stessa società e cultura che oggi condanna giustamente il gesto di Campiti, ma non intende che proprio il perdono avrebbe potuto salvare lui insieme alle sue vittime. Certamente è necessario trovare le colpe e dare il nome ai responsabili, ma poi serve un cuore come quello di Castagna, capace di liberarsi dal male subito per sottrargli il suo potere: «Ho ritenuto che non dovessi vivere odiando, sarebbe stata per me una tragedia… il perdono invece rende liberi».

Don Salvatore Tumino, sacerdote con doni carismatici, scomparso prematuramente, in Gesù guarisce il tuo cuore racconta: «Una volta incontrai un vecchietto che aveva tanta inquietudine, non riusciva ormai ad uscire di casa e tormentava spesso sua moglie con la sua irascibilità. Parlammo a lungo e cercai di risalire alla causa del suo malessere. Con l'aiuto del Signore ricordammo un episodio che aveva segnato la sua vita: 25 anni prima aveva subito un incidente e chi lo aveva investito si era comportato male. Mi raccontò con una incredibile dovizia di particolari l'episodio come se fosse successo 25 minuti prima, aveva molto odio nel suo cuore e mi diceva continuamente “Non è giusto quello che ha fatto questa persona. Non è giusto” [...] piano piano cercai di convincerlo che quell'odio aveva da 25 anni distrutto la sua vita [...] si convinse, pregando per questa persona, si confessò, chiese perdono al Signore per l'odio avuto durante tutto questo periodo e la pace entrò subito nel suo cuore». L'uomo cominciò a uscire di casa e la sua vita cambiò.

Si capisce quindi come la cultura contemporanea, che descrive Campiti come un pazzo ma che avrebbe preferito un Castagna feroce contro gli assassini, non può che essere complice della violenza. Basti pensare a quando giornali e intellettuali, come ad esempio Vattimo, si chiedevano come Castagna «si permette di perdonare? […] mi sembra più comprensibile la reazione di Marzouk (il marito della figlia, ndr): “vivrò per vendicarla”». Eppure Marzouk continuò a vivere una vita da violento, mentre Castagna visse in pace: «Dio - chiarì l’uomo - mi ha dato la forza del perdono e la lucidità di capire che ero ad un bivio. Ho preso la strada giusta altrimenti sarei entrato anche io nel vicolo cieco delle tenebre».

Disprezzare la strada del perdono non fa che aumentare la violenza dilagante nei rapporti che hanno dimenticato che la vera giustizia non è di questa terra: «La giustizia degli uomini deve essere applicata, ma parlo anche di un'altra Giustizia, che ha tempi e logiche diverse», continuò Castagna, che poi spiegò come potesse parlare così: «I miei cari sono accanto a me nello spirito e prima o poi torneremo tutti insieme. Ma io prego per il signor Olindo e la signora Rosa perché loro possono ancora salvarsi e chiedere perdono, non a me, ma al Padre buono». Sembra ingiusto amare chi compie il male sottraendoci ciò che ci spetta e che abbiamo caro, ma non c'è altra via alla pace personale e sociale. Occorre chiedere questo Amore a chi, sulla croce, ha perdonato, prima che ci pentissimo, ogni nostro male.