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MILANO

Aiuto alla Chiesa che Soffre, la mostra sui nuovi martiri

Le persecuzioni dei cristiani nel mondo hanno fatto dire a papa Francesco che “ci sono più martiri oggi che nei primi secoli della Chiesa” e, solo alla luce del Vangelo, non stupiscono. Aiuto alla Chiesa che Soffre ha allestito a Palazzo Lombardia di Milano una mostra, visitabile fino al prossimo 21 aprile sulle catacombe dei giorni nostri, per non chiudere gli occhi di fronte ai tanti nuovi martiri. Intervista ad Alessandro Monteduro, direttore Acs.

Libertà religiosa 01_04_2017
Aiuto alla Chiesa che Soffre

C’è la storia delle ragazze nigeriane rapite dal gruppo jihadista Boko Haram, il calvario di Asia Bibi in carcere dal 2009 e vittima della “legge nera” pachistana, l’abbandono delle proprie case da parte di migliaia di famiglie irachene e siriane in fuga dall’Isis, l’ascesa dei fondamentalismi indù e buddista dall’India alla Thailandia, le persecuzioni sotto i regimi di Cina, Corea del Nord ed Eritrea, dove la cantante gospel Helen Berhane è stata imprigionata per due anni in un container per aver inciso un album di musica cristiana. “Può accadere ovunque e a chiunque per ragioni di Fede”, è la scritta che vuole scuotere le nostre coscienze addormentate e che risalta alla commovente mostra sui cristiani perseguitati, allestita dalla Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre e visitabile in questi giorni, fino al 21 aprile, a Palazzo Lombardia (dalle 13 alle 19, ingresso libero).

Queste persecuzioni hanno fatto dire a papa Francesco che “ci sono più martiri oggi che nei primi secoli della Chiesa” e, solo alla luce del Vangelo, non stupiscono: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15, 20). Ma di fronte a esse si registra la generale indifferenza dei media e delle istituzioni del nostro Paese, con rarissime eccezioni, come la Regione Lombardia che a ottobre ha approvato una mozione volta al riconoscimento del genocidio in atto. La Nuova BQ ne ha parlato con il direttore di ACS, Alessandro Monteduro.

Dottor Monteduro, il sostegno della Regione Lombardia, prima con la mozione e adesso con la mostra, che cosa significa per Aiuto alla Chiesa che Soffre?

Io farei un’interpretazione più estensiva. Oltre alla mozione e alla mostra, ricordo infatti il convegno internazionale che la Regione ha organizzato il 29 ottobre, con la presenza di diversi testimoni delle persecuzioni, e i quattro giorni durante i quali il Pirellone fu illuminato con la scritta Help Christians. Questo percorso, possibile soprattutto grazie alla sensibilità dell’assessore competente, cioè Cristina Cappellini, significa molto. Nel deserto di sensibilità rispetto alla tragedia che vivono milioni di cristiani poveri, oppressi e perseguitati nel mondo, è chiaro che l’aiuto di un’istituzione regionale – la più importante del Paese – ci conforta. L’auspicio è che la Regione Lombardia possa essere quella che gli inglesi chiamano la best practice. Lanciamo un appello alle istituzioni locali, regionali, nazionali e sovranazionali: chiunque manifesterà solidarietà ai cristiani perseguitati, sappia che per i nostri fratelli sarà una ricchezza.

Da giugno sono depositate alla Camera e al Senato due mozioni sul riconoscimento del genocidio commesso dall’Isis ai danni dei cristiani e di altre minoranze religiose.

Non mi risulta che quelle due specifiche mozioni, sostenute da 120-130 parlamentari, siano state discusse. Tuttavia, lo scorso 27 settembre, la Camera ha approvato un’altra mozione sulla persecuzione in Medio Oriente ai danni della comunità yazida, all’interno della quale - grazie ad alcuni emendamenti - si è inclusa anche la questione dei cristiani, con la finalità di sollecitare le istituzioni sovranazionali e, innanzitutto, l’Onu, a qualificare come genocidio quanto sta accadendo in Medio Oriente. Ma le testate nazionali gli hanno dato scarsissima attenzione, io stesso ho fatto fatica a scorgere un pur minimo riferimento a quanto approvato dalla Camera.

Non a caso lei ha scritto di recente che “l’Italia ha ormai relegato la sicurezza dei cristiani nel mondo all’ultimo posto tra i temi da affrontare nel dibattito pubblico”.

Io mi limito a fare un confronto con quanto accade in altri Paesi. In Francia, il candidato alla presidenza François Fillon sta vivendo delle difficoltà di non poco conto, ma all’apice della sua candidatura aveva presentato dieci punti programmatici, tra cui il sostegno pratico ai cristiani perseguitati. Nel 2016 il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno approvato delle mozioni a supporto dei cristiani, discutendole con un pathos, un coinvolgimento culturale, politico e valoriale che da noi è assente. E lo dico sia riguardo al livello politico che culturale, visto il disinteresse di molti organi di informazione a parlare di quanto sta accadendo neanche troppo lontano da noi. L’assassinio di un sacerdote in Francia, padre Jacques Hamel, portò i giornalisti italiani ad aprire con dei titoli fortissimi sul martirio nelle chiese di casa nostra. Quei titoli li ho incorniciati, ma per me non c’è nessuna differenza tra padre Jacques e il martirio, per fare un esempio tra tanti, di padre Ragheed Ganni, assassinato il 3 giugno 2007 a Mosul al termine della Messa: la sua vita è una testimonianza straordinaria che quasi tutti i media ignorano, perché avviene fuori dal giardino di casa.

Papa Francesco ha esortato la comunità internazionale a non voltarsi dall’altra parte di fronte al martirio dei cristiani. Crede che le istituzioni sovranazionali, in primis l’Onu, stiano facendo abbastanza?

Le risulta che la comunità internazionale stia facendo qualcosa? A me no. Cominciasse a fare qualcosa. Io sono stato tre volte in Iraq negli ultimi dieci mesi: ho difficoltà a raccontarle minime tracce di strutture sovranazionali nell’azione di solidarietà verso quei 130 mila cristiani che dall’estate del 2014 sono stati costretti a fuggire: parlo soprattutto dell’assenza dell’Onu. Ho visto tanto Occidente in Iraq, ma non ho visto strutture sovranazionali. Oggi siamo di fronte a una sfida epocale di civiltà che riguarda tutti e può realmente segnare il discrimine nella guerra al terrorismo islamico. Quando libereremo il Nord dell’Iraq dall’Isis, per dire di aver vinto dovremo far sì che quei cristiani possano tornare nelle loro case. Questo si può fare solo ripristinando le condizioni di sicurezza: e qui serve un preciso impegno della comunità internazionale.

Intanto, cosa si può fare di concreto?

Assieme alla preghiera, il principio è il medesimo che abbiamo applicato dopo l’uccisione di padre Jacques. Il messaggio che volevamo passasse - ed è passato, ricevendo una solidarietà materiale inimmaginabile da parte di benefattori di tutto il mondo - è questo: se viene martirizzato un sacerdote, noi ne formeremo altri mille. Altro esempio. Dopo che a Dacca furono uccisi oltre 20 civili, tra cui 10 italiani, perché ricordo che la nostra Simona Monti aspettava un bambino, grazie alla collaborazione della famiglia abbiamo costruito una chiesa a 150 chilometri dalla capitale, in un piccolo villaggio dove vivono appena 124 cattolici. L’abbiamo inaugurata il 23 febbraio e intitolata a San Michele Arcangelo, alla presenza di don Luca Monti, il fratello di Simona. Penso che i fiancheggiatori dei terroristi, quando sapranno che da quel sangue è sgorgata una chiesa cattolica a pochi chilometri dal luogo della strage, si porranno delle domande. Noi dobbiamo rispondere sempre con la speranza, da accompagnare con l’esortazione che papa Francesco ci ha fatto nello splendido videomessaggio del 2 marzo: “Quanti di voi pregano per i cristiani perseguitati?”. E ci ha sollecitato a sostenerli “nella preghiera e attraverso l’aiuto materiale”. Se consentiremo alle decine di migliaia di cristiani di tornare nelle loro case nella piana di Ninive, ricollocando il cristianesimo là dove è nato, il messaggio che manderemo all’estremismo religioso sarà probabilmente quello definitivo.

Il messaggio è rispondere al male con semi di bene. Lei ha detto proprio che il miglior modo per proteggere i bambini è formarli cristiani.

Sì. In questi giorni stiamo vivendo una serie di drammatiche ricorrenze: il 2 aprile ricorre il secondo anniversario dell’attentato all’università di Garissa in Kenya, dove in odio alla fede furono uccisi 148 studenti cristiani. Il 27 marzo abbiamo ricordato la strage di Pasqua in Pakistan, a Lahore, dove lo scorso anno morirono 32 bambini che giocavano nel parco. A chi semina il terrore perfino nel cuore dei piccoli, noi a Lahore abbiamo risposto distribuendo le Bibbie del Fanciullo in urdu, la lingua locale, come facciamo in ogni angolo del mondo. La risposta è seminare la fede e la speranza nel cuore dei bambini.

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