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INTERVISTA / DON CITO

“Vi spiego la riforma del Codice di Diritto Canonico”

Solo 17 canoni su 89 non sono stati toccati dalla riforma del Libro VI del Codice di Diritto Canonico che entrerà in vigore l'8 dicembre. Molti i temi, dalla trasparenza nella gestione dei beni ecclesiastici alla tutela dei minori, alle pene specifiche in materia di dissenso verso il Magistero. La Bussola intervista don Davide Cito, professore straordinario di Diritto penale canonico.

Ecclesia 14_06_2021

Con la Costituzione Apostolica Pascite Gregem Dei, Francesco ha modificato il Libro VI del Codice di Diritto Canonico, completando così un percorso già avviato da Benedetto XVI nel 2007. Una riforma della normativa sulle sanzioni penali nella Chiesa che lascia intatti soltanto 17 canoni su 89 del testo precedente risalente al 1983. La revisione entrerà in vigore a partire dall’8 dicembre e sarà successivamente inserita nel Commentario ufficiale Acta Apostolicae Sedis. A don Davide Cito, professore straordinario di Diritto penale canonico presso le Pontificie Università della Santa Croce e Lateranense nonché consultore del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, abbiamo chiesto di presentare per la Nuova Bussola Quotidiana le modifiche introdotte e di chiarire alcuni punti meritevoli di approfondimento.

Don Davide Cito, quali sono gli scopi prefissati dalla revisione del Libro VI del Codice di Diritto Canonico?
C’è, come sempre succede, la necessità di adeguarsi a circostanze mutate in questi ultimi decenni, soprattutto in relazione alla questione della tutela dei minori. Ma penso anche al tema della trasparenza nella gestione dei beni ecclesiastici. Sono aspetti che oggi richiedono un’attenzione particolare, perché sono molto significativi per il modo con cui la Chiesa presenta il suo messaggio evangelico. Il trasferimento del reato di abusi su minori tra i delitti contro la persona anziché tra quelli contro gli obblighi speciali è un passo molto importante, compiuto anche dagli ordinamenti statali 30 anni fa. La vittima viene messa al centro: prima si parlava di delitti contro la castità del clero, oggi si parla di tutela dei minori. L’oggetto diventa la tutela, non la repressione.

A questo proposito, c’è un’altra novità significativa: la pena è prevista non solo per i chierici ma anche per i laici con posizioni all’interno della Chiesa.
È un modo attraverso il quale si realizza il Concilio Vaticano II. Nel testo del 1983 il ruolo dei laici non era considerato. L’inserimento dei laici con incarichi nel nuovo testo conferma la grande rappresentatività che hanno oggi nella Chiesa e testimonia che il diritto canonico non è solo il diritto dei chierici. Questo comporta rappresentatività, come abbiamo detto, ma anche responsabilità e fa sì che anche le loro azioni - come quelle dei ministri sacri - coinvolgano inevitabilmente l’immagine della Chiesa.

Sempre sulla questione minori: tra le azioni sanzionate nel canone 1398 si contempla anche - riporto integralmente - chi “immoralmente acquista, conserva, esibisce o divulga, in qualsiasi modo e con qualunque strumento, immagini pornografiche di minori o di persone che abitualmente hanno un uso imperfetto della ragione”. Perché si è voluto specificare “immoralmente”?
L’utilizzo dell’avverbio va inteso in questo senso: si può detenere quel tipo di materiale in maniera non immorale per motivi professionali, come è il caso del giudice ecclesiastico che lo esamina o degli inquirenti che lo sequestrano. C’è anche il caso di chi potrebbe acquistare un computer o uno smartphone di seconda mano e non sapere della presenza di un hard disk con immagini pedopornografiche, detenendolo quindi inavvertitamente. Il canone, dunque, stabilisce che oltre alla materialità occorre anche l’intenzionalità negativa del gesto.

I legislatori statali seguono sempre più la strada della de-codificazione e della codificazione a carattere settoriale. Nella Chiesa, invece, con questa riforma tutto il diritto penale confluisce nel Codice di Diritto Canonico. Come mai questa scelta in controtendenza?
Da un lato, bisogna considerarne l’estensione rispetto a quella di una legislazione statale: tutto il contenzioso canonico del mondo non equivale a quello di una singola regione italiana. Dall’altro, poi, c’è l'idea di avere a disposizione uno strumento unico per tutti e semplice da utilizzare. C’è anche un altro aspetto da considerare: questa legislazione vale in tutto il mondo, mentre le Conferenze episcopali sono chiamate a fare leggi di settore legate al contesto culturale. Questo si può fare quando c’è un’omogeneità ambientale e di problematiche. In linea generale, credo che si debba ridurre il diritto al compito che dovrebbe effettivamente avere all’interno della vita della Chiesa: uno strumento minimo e indispensabile, non così esorbitante da soffocare elementi più importanti come la Parola di Dio e la Liturgia. Non dimentichiamo che in chiesa si va per bisogni spirituali, non per obblighi giuridici.

Novità anche in caso di tentata ordinazione femminile, per la quale si incorre in scomunica latae sententiae e c’è la possibilità della dismissione dallo stato clericale.
La norma esisteva già nell’articolo 5 del motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela (2001). Adesso viene incorporata nel Codice. La riforma del Libro VI va in questa direzione: prendere norme già esistenti, incorporarle e farle diventare generali. Anche se poi la competenza a giudicare sarà della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Il Codice di Diritto Canonico delle Chiese Orientali non è stato riformato. Secondo lei ci sarà un’armonizzazione con il nuovo testo latino?
Le norme che sono previste nel Sacramentorum sanctitatis tutela già valgono sia per Oriente che per Occidente. Bisognerà vedere come saranno integrate le nuove norme proprie del Codice latino.

In materia di dissenso verso il Magistero c’è una definizione delle pene previste: nel testo precedente si parlava di “giusta pena”, nel nuovo canone 1365, invece, sono previste la censura e la privazione dell’ufficio (a cui possono essere aggiunte l’ingiunzione e la proibizione) nei confronti di chi “insegna una dottrina condannata dal Romano Pontefice o dal Concilio Ecumenico o respinge pertinacemente la dottrina”. Qual è il criterio di questa esplicitazione?
L’idea del precedente testo era che ogni giudice avrebbe trovato la giusta pena, ma alla fine ci si è resi conto che se non si danno dei parametri si rischia di non fare alcunché. Con la riforma si è cercato di dare delle indicazioni di proporzionalità e di adeguatezza. Manca un massimo o un minimo della pena, però si offre un ventaglio di possibilità. Non c’è più, quindi, una pena teorica e si dà, in questo modo, un aiuto a facilitare chi deve applicarla.

Nel canone 1373 si prevede la punizione con interdetto per chi “pubblicamente suscita rivalità e odi contro la Sede Apostolica o l’Ordinario per un atto di ufficio o di funzione ecclesiastica”. Prima, invece, si parlava di “atto di potestà o di ministero ecclesiastico”. Può spiegarci la differenza?
Si tratta di una norma legata soprattutto alle nomine. Pensiamo, ad esempio, ad alcuni episodi avvenuti in Africa con ribellioni di parroci alla designazione di vescovi. I concetti di “ministero” e “potestà” erano troppo ampi e un po’ indeterminati. Specificare che si parla di “funzione ecclesiastica” fa capire che ci si riferisce a quelle attività che sono legate direttamente al servizio pastorale offerto dalle gerarchie.