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BALCANI

Spartizione della Bosnia, un progetto concreto

Un documento informale attribuito al primo ministro sloveno Janez Janša, indirizzato al Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, contiene alcune proposte per risolvere in modo definitivo i conflitti etnici e territoriali dell’area balcanica. Riusciranno gli Stati a rinunciare a parte dei loro interessi per chiudere la questione? Dalle reazioni pare difficile.

Esteri 22_04_2021

Nelle Cancellerie dei Paesi succeduti alla ex-Jugoslavia da una settimana non si parla d’altro. Un documento informale (in inglese non paper) attribuito al primo ministro sloveno Janez Janša - dal 1° luglio prossimo presidente di turno dell’Unione Europea -, indirizzato al Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, destinato a rimanere segreto, e invece pubblicato dal portale informativo sloveno necenzurirano.si, contiene alcune proposte di massima per risolvere in modo definitivo i conflitti etnici e territoriali dell’area balcanica.

Un documento davvero esplosivo, visto che per la prima volta mette nero su bianco l’ipotesi di una spartizione della Bosnia-Erzegovina, vale a dire l’annessione delle aree a maggioranza croata e serba rispettivamente alla Croazia e alla Serbia e l’assegnazione del resto del territorio alla componente bosgnacco-musulmana.

Questo documento, intitolato “Western Balkans - a way forward” (I Balcani occidentali - una via da seguire), giunto tra le mani di Charles Michel già a febbraio, è privo di intestazione e non è stato inviato per via diplomatica, così da dare la possibilità agli estensori di negarne la paternità in caso di polemiche. Tuttavia, in ambienti diplomatici comunitari di Bruxelles non hanno dubbi nell’attribuire il documento al governo sloveno.

Nell’introduzione si afferma che gli accordi di Dayton hanno permesso di porre fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina, tuttavia non hanno rispecchiato l’esito della guerra né risolto i problemi principali, vale a dire i problemi di convivenza tra le varie etnie e di conseguenza hanno creato un caos istituzionale che paralizza questo Paese, situazione della quale ha approfittato la Turchia per estendere la sua influenza in questa regione. L’intervento armato della NATO del 1999 ha permesso l’indipendenza del Kosovo ma neppure in questo caso ha risolto i problemi di fondo, vale a dire la difficilissima convivenza tra serbi e albanesi e i rapporti assai tesi tra Priština e Belgrado. In questo quadro, afferma il documento, è difficile immaginare una prospettiva europea per Kosovo e Serbia, mentre l’ingresso della Bosnia-Erzegovina nell’Unione Europa è da escludersi.

Per superare l’impasse il documento suggerisce le seguenti soluzioni: - l’unione territoriale tra Kosovo e Albania, considerando il fatto che praticamente non esiste un confine tra questi due Stati. All’enclave serba del Kosovo viene garantita un’autonomia sul modello della minoranza sudtirolese in Italia; - l’unificazione della Republika Srpska (l’entità serba della Bosnia-Erzegovina) alla Serbia, così da rendere possibile alla Serbia di rinunciare al Kosovo; - il problema nazionale croato in Bosnia-Erzegovina può essere risolto annettendo alla Croazia le regioni (o cantoni, come li chiamano i bosgnacchi) a maggioranza croata, oppure dando loro un grado di autonomia simile a quello goduto dai sudtirolesi in Italia; - in questo modo i bosgnacchi avrebbero uno Stato che coprirebbe i territori dove essi sono in stragrande maggioranza e potrebbero organizzare uno Stato amministrativamente funzionale e successivamente scegliere se aderire all’Unione Europea o meno.

Che questo documento avrebbe suscitato un vespaio di notevoli proporzioni era noto anche ai suoi estensori, da qui la scelta di presentare queste proposte con un documento non ufficiale. Tuttavia, che il governo sloveno sia coinvolto nella sua stesura è dimostrato dal fatto che ancora prima della sua pubblicazione il presidente sloveno Borut Pahor in vista ufficiale in Bosnia-Erzegovina aveva chiesto ai suoi interlocutori bosniaci se fossero pronti a una separazione pacifica (lascia il tempo che trova la giustificazione a posteriori del presidente sloveno che una tale domanda era dovuta alla sua preoccupazione per una tale eventualità).

Tutti o quasi hanno respinto le proposte fatte da questo documento non ufficiale. Pubblicamente a Zagabria si riafferma la volontà di volere conservare l’integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina, tuttavia diversi passi degli ultimi anni - non da ultimo l’evidente appoggio di Zagabria alla strana alleanza tra il leader dei croati di Bosnia-Erzegovina Dragan Čović e quello dei serbi Milorad Dodik, nonché le frequenti durissime dichiarazioni del presidente croato Milanović nei confronti della Bosnia-Erzegovina - fanno capire che la reale posizione del governo croato è ben diversa. Ciò è stato compreso benissimo a Sarajevo, tant’è che negli ultimi tre anni le polemiche dei leader bosgnacco-musulmani nei confronti della Repubblica di Croazia sono state più violente perfino che verso la Serbia e la Republika Srpska, nemici da sempre.

Da parte serba c'è da registrare la smentita del presidente Vučić di avere partecipato alla redazione del non paper, mentre il membro della Presidenza della Bosnia-Erzegovina in quota serba, Milorad Dodik, ha riaffermato la sua consueta posizione, cioè che «tutti riconoscono che la Bosnia-Erzegovina così non può andare avanti, ed è quindi necessario parlare di una separazione pacifica». Sebbene quindi le proposte del non paper attribuito al governo sloveno non siano al momento praticabili, il documento ha il grande merito di avere squarciato la cortina fumogena di ipocrite dichiarazioni ufficiali che nascondono la realtà di altri, al momento innominabili, pensieri.

Esso rappresenta un macigno gettato nella palude bosniaco-erzegovese e più in generale balcanica, che presto o tardi provocherà altri sommovimenti. È più che evidente che le tensioni sia tra Serbia e Kosovo sia tra le etnie della Bosnia-Erzegovina e la conseguente ingovernabilità di quel Paese potrebbero prima o poi sfociare in nuove guerre. Troppo grave è, tanto per fare un esempio, l’insoddisfazione croata di vedersi strappata dai bosgnacchi musulmani ogni forma di rappresentanza politica a livello nazionale. Sono stati infatti i bosgnacchi, e non i croati, a eleggere alla Presidenza in quota croata Željko Komšić, croato prono ai loro desiderata che non rappresenta le posizioni della stragrande maggioranza dei croati in Bosnia-Erzegovina. I croati vengono limitati nel loro diritto di utilizzare la loro lingua e cultura, non esiste infatti alcun canale della tv pubblica nazionale in lingua croata, e perfino la fondazione dell’emittente in lingua croata Radio-Televizija Herceg-Bosne, in parte finanziata dalle regioni a maggioranza croata, ha suscitato numerose polemiche. Viene loro perfino negata la possibilità di dare un pio omaggio ai loro morti, come hanno dimostrato le violentissime polemiche scoppiate a seguito della celebrazione a Sarajevo di una Santa Messa di suffragio delle vittime di Bleiburg e della Via Crucis croata.

Lo stesso rischio sussiste anche per il Kosovo, nella sua parte settentrionale considerata dai serbi culla della loro cultura e della loro fede, al quale essi non rinunceranno mai. Anche in questo caso vi sono stati tentativi di mediazione. Un anno fa, infatti, voci insistenti in ambienti diplomatici parlavano della disponibilità di massima del presidente serbo Vučić a uno scambio con il Kosovo che prevedesse la cessione a questo Paese della Valle di Preševo, un’area della Serbia meridionale confinante con il Kosovo ma abitata in prevalenza da albanesi, e il ritorno alla Serbia dell’enclave a maggioranza serba del Kosovo settentrionale. Questo piano, negato pubblicamente dal presidente serbo ma sicuramente esistente, non è giunto a buon fine. Il documento non ufficiale attribuito al governo sloveno di questi ultimi giorni rappresenta tuttavia l’ennesima conferma che la comunità internazionale, a dispetto di tutte le smentite ufficiali, si sta con decisione muovendo in questa direzione. Limando i desiderata territoriali degli uni e degli altri - non bisogna dimenticare che questo fu fatto perfino durante le trattative di Dayton - si può giungere a una soluzione se non soddisfacente, almeno accettabile da tutte le parti in causa.