Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
DIBATTITO

Solo una Nazione non "smemorata" ci salverà

Con il profilarsi della crisi del globalismo capitalista, occorre riflettere sull'unica forza che possa realmente opporvisi: la Nazione. Solo una Nazione che sia tale, infatti, può arginare la forza dirompente del capitale, e solo l'interesse nazionale può contrastare l'interesse degli “investitori” stranieri.

Politica 16_09_2016
La crisi del globalismo capitalista

Sono rimasto piacevolmente colpito dall'ultimo articolo di Stefano Fontana (clica qui), e un po' deluso che lo spunto che fornisce non sia stato ripreso ed approfondito. Soprattutto perché credo che, con il profilarsi della crisi del globalismo capitalista, sia opportuno cominciare a riflettere sull'unica forza che possa realmente opporvisi: la Nazione.

Solo una Nazione che sia tale, infatti, può arginare la forza dirompente del capitale, e solo l'interesse nazionale (eccola, questa brutta locuzione) può contrastare l'interesse degli “investitori”. Non è un caso se due importanti Stati, il Regno Unito (clicca qui) e la Russia (clicca qui), decisi a mettere al centro delle proprie politiche l'interesse nazionale (di nuovo queste brutte parole), hanno automaticamente messo in discussione il modello liberista. Come non è un caso se, per rilanciare l'Unione europea, Renzi ha convocato Merkel e Hollande a Ventotene per una commemorazione del Manifesto (clicca qui) di Altiero Spinelli; documento che auspica una «Europa libera e unita» a discapito degli Stati nazionali, che incarnano tutto il male del mondo.

La faccenda risulta particolarmente ironica se si pensa che il modello che May e Putin stanno studiando, e che comprende autori come List, Gesell e altri) è particolarmente affine con il distributismo chestertoniano e, in ultima analisi, con la Dottrina sociale della Chiesa; fatto che renderebbe noi italiani particolarmente affini a questi modelli alternativi al liberismo e al socialismo. Al massimo grado, per di più, se si pensa al modello economico democristiano (sintetizzato felicemente da Fanfani), che ha unito il dirigismo statale all'economia di mercato in modo talmente felice da farci diventare (ormai decenni fa) la quarta potenza industriale al mondo.

Invece l'Italia, a partire dalle “privatizzazioni” di Amato nel 1992 fino alla svendita di pezzi di mare nazionale operata da Renzi (clicca qui), sembra marciare convinta nella direzione opposta: la rinuncia a qualsiasi interesse nazionale, a qualsiasi “politica industriale” nazionale a favore di misteriosi “investitori stranieri”. Lo rivelano i progetti di legge per regolamentare le lobbies, cioè i gruppi di interesse: costoro sarebbero autorizzati a collaborare con il Parlamento, purché dichiarino le proprie attività e l'utilizzo di risorse economiche. Il Parlamento, a dire il vero, è già al servizio di una lobby: il popolo italiano. Collaborare con altri gruppi di interesse si configura quindi come reato di tradimento, punibile con l'ergastolo.

Lo rivela il fatto che la cosiddetta “Riforma costituzionale” ha come obiettivo la modifica del Titolo V della Costituzione – che regola i rapporti tra lo Stato e enti locali – e, in ultima analisi, la possibilità da parte dello Stato di disporre (e quindi vendere) della rete di aziende municipalizzate che rendono civile il nostro Paese. Forse il motivo di queste diverse scelte sta nel fatto che Russia e Regno Unito sono delle Nazioni, mentre l'Italia non lo è più? Sembra questa u’affermazione pesante, ma è poi così esagerata? Una Nazione non è semplicemente uno Stato, né uno stato basta per fare una nazione.

Cosa serve per fare una Nazione? Innanzitutto serve, come ricorda Stefano Fontana citando san Giovanni Paolo II, la memoria. In Italia la memoria nazionale è stata sostituita da una falsa memoria di Stato. Le invasioni napoleoniche, il cosiddetto Risorgimento, la “lotta partigiana” e il 25 aprile, “Mani pulite”... Questi eventi sono stati inseriti in una narrazione “di Stato” in modo forzoso e artificiale, mentre la memoria nazionale (le insorgenze, la conquista del Mezzogiorno, il fascismo...) sono stati obliati e distorti. Una Nazione non può reggersi su una memoria inventata, o censurata. Una Nazione ha bisogno di fare i conti con il proprio passato, per quanto doloroso possa essere questo processo.

Non siamo l'unico Paese che ha preferito cancellare una memoria troppo dolorosa. La Germania continua a chiamare i campi di concentramento nazisti sul territorio polacco «campi di concentramento polacchi», provocando continuamente vani interventi da parte dei polacchi  (clicca qui) che in quei campi morirono a milioni. Del resto, sono stati dei tedeschi, i membri della Scuola di Francoforte, a utilizzare la parola “fascismo” come sineddoche per tutti gli autoritarismi: il franchismo era fascismo, il nazionalsocialismo era fascismo, il fascismo era fascismo all'ennesima potenza. Ancora adesso, negli Stati Uniti, per indicare l'autoritarismo si usa la parola fascism.

In Italia, fare i conti con la memoria nazionale significa necessariamente mettere in discussione (profanare) la narrazione di Stato. Non c'è altro modo. Oltre alla memoria, per fare una Nazione serve l'identità nazionale. È necessario che i membri della Nazione si identifichino in essa, se ne sentano parte. Anche questo è un tasto dolente per gli italiani. Faccio un esempio. Dal 2004 al 2009 i parlamentari europei polacchi di tutti gli schieramenti politici si riunirono regolarmente per accordarsi sulle strategie da mettere in campo per favorire la Polonia nelle istituzioni europee. Lobbismo nazionale: ciò per cui gli europarlamentari sono pagati dai cittadini. Questo gruppo venne chiamato Klub Polskiego (Club Polacco).

Dal 2009 al 2015 il Klub cambiò nome in Kola Polskiego (Cerchio Polacco) e si diede una struttura più organizzata. Negli stessi anni gli europarlamentari italiani diffondevano presso le istituzioni europee dei dossier contro le più alte cariche dello Stato italiano. Nel frattempo, i quotidiani italiani passavano a media stranieri materiale compromettente sui più alti membri delle istituzioni nazionali. Ancora oggi, se una importante azienda nazionale “omaggia” degli interlocutori stranieri, sono i giudici italiani ad aprire un procedimento giudiziario: contro l'interesse nazionale, ovviamente.

Credo che tutto questo in altri Paesi non accada. Non è accaduto in Polonia (mi riferisco a Kwasniewski), né negli Stati Uniti, e nemmeno in Francia. I presidenti di queste Nazioni sono stati criticati, e attaccati. Con rispetto. Nessuno di loro è stato beffeggiato continuamente per anni, né si è invitato il pubblico straniero a farsi beffe delle più alte cariche dello stato. In Italia questo accade regolarmente. Non credo che questa sia una tendenza spontanea dei miei concittadini. È piuttosto un’inclinazione costruita, ma questo è un altro discorso.

Infine: una Nazione è un progetto: forse non è altro che un progetto. Lo spiega Ortega Y Gasset ne La ribellione delle masse: «Lo Stato è sempre, qualunque sia la sua forma — primitiva, antica, medievale o moderna —, un invito fatto da un gruppo di uomini ad altri gruppi di uomini per eseguire insieme un’impresa. Questa impresa, qualunque siano i suoi tramiti intermediari, consiste alla fine nell’organizzare un certo tipo di vita comune. Stato e programma di vita, progetto di azione o di condotta umana, sono termini inseparabili». Sinceramente: mi sfugge a quale tipo di impresa le élite italiane (non solo politiche) mi stiano chiamando. Ho l'impressione che non mi stiano proponendo nulla. Quindi a cosa dovrei dare il mio assenso? Ora, la domanda è: sopravviveremo al capitalismo? O alla fine del capitalismo? Forse è il caso di cominciare a riflettere sull'idea di Nazione.