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Scudo penale per i medici, a rischio la salute dei cittadini

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Criteri vaghi e deresponsabilizzazione: ecco i rischi legati alla riforma che fornisce una immunità di fatto al personale sanitario senza affrontare i nodi del sistema. A scapito dei pazienti ma anche dei professionisti che operano con coscienza e competenza.

Attualità 06_09_2025
CARLO CARINO BY AI MID - imagoeconomica

Il governo ha approvato in via definitiva quello che, con un eufemismo istituzionale, viene presentato come un aggiornamento del quadro normativo sulla responsabilità professionale sanitaria, ma che nella sostanza si configura come un vero e proprio scudo penale per i medici.
Dopo numerosi rinvii e pressioni da parte delle principali organizzazioni di categoria, il Consiglio dei ministri ha dato il via libera a una riforma che introduce nel Codice penale due nuovi articoli – il 590-sexies e il 590-septies – con cui si stabilisce che il personale sanitario sarà perseguibile per i reati di lesioni personali colpose o omicidio colposo soltanto in presenza di colpa grave. Il tutto a condizione che il medico abbia seguito le linee guida accreditate o le cosiddette “buone pratiche clinico-assistenziali”. Un dettaglio non da poco, se si considera che proprio la vaghezza di questi parametri consente di fatto una facile deresponsabilizzazione, soprattutto in un contesto sanitario nazionale cronicamente sottofinanziato, afflitto da carenze strutturali e da una gestione delle risorse spesso inefficiente.

Questo scudo penale, già introdotto durante l’emergenza Covid come misura temporanea, viene oggi reso strutturale, modificando in modo permanente l’equilibrio tra diritti dei pazienti e tutela dei professionisti sanitari. La norma stabilisce che, nel valutare la colpa e il suo grado, il giudice dovrà tenere conto di una lunga serie di fattori esimenti: dalla scarsità di personale e attrezzature alle carenze organizzative, dalla contraddittorietà delle conoscenze scientifiche disponibili fino alla complessità dell’intervento o all’urgenza del caso clinico. Tutti elementi che, sebbene reali e noti a chiunque conosca lo stato della sanità pubblica italiana, rischiano di trasformarsi in un alibi perenne per qualsiasi tipo di errore medico.

Il principio su cui si basa il provvedimento, infatti, non è solo quello di circoscrivere la punibilità alla sola colpa grave, ma anche quello di considerare il contesto operativo come elemento attenuante o addirittura esimente. Un concetto che può apparire sensato sulla carta ma che nella realtà, dove il “contesto difficile” è ormai la regola e non l’eccezione, diventa una scappatoia sistematica. In pratica, se un medico sbaglia diagnosi o terapia e ciò provoca danni gravi o addirittura la morte del paziente, potrà evitare ogni responsabilità penale semplicemente dimostrando che lavorava in condizioni complicate: personale ridotto, carenza di farmaci, incertezze scientifiche, turni massacranti. Circostanze purtroppo diffuse e quasi strutturali nel servizio sanitario nazionale, che finiscono ora per assumere il ruolo di salvacondotto giuridico. In questo modo, il legislatore sembra aver voluto accontentare la categoria medica garantendo una sorta di immunità di fatto, senza però affrontare i veri nodi del sistema: l’investimento in strutture, formazione, tecnologie e personale. Non si risolvono le criticità ma si sposta semplicemente il baricentro della responsabilità, lasciando i cittadini sempre più soli di fronte agli errori sanitari.

La legge Gelli-Bianco del 2017 aveva già cercato un difficile equilibrio tra la tutela dei pazienti e la serenità operativa dei medici, ma ora con la modifica del Codice penale questo equilibrio viene spezzato in modo netto a favore della seconda componente. L’approccio adottato dal governo si fonda sull’idea che la medicina non sia una scienza esatta e che dunque l’errore, se non dettato da dolo o colpa gravissima, debba essere giustificato. Ma è un’idea pericolosa, perché alimenta una cultura dell’irresponsabilità, in cui la mancanza di conseguenze giuridiche concrete rischia di indebolire l’etica professionale.

Ci si può chiedere se a questo punto il medico non sia posto su un piano analogo a quello del giudice, altra figura per definizione difficilmente perseguibile per gli errori commessi nell’esercizio delle proprie funzioni. Con la differenza che il paziente non può scegliere chi lo curerà in ospedale, mentre chi subisce un danno da errore giudiziario, almeno in teoria, può appellarsi a gradi superiori di giudizio. Il vero rischio, infatti, è che questa riforma alimenti la già crescente sfiducia dei cittadini verso il sistema sanitario pubblico, accelerando un processo di privatizzazione strisciante. I pazienti che possono permetterselo si rivolgeranno sempre più alle strutture private, mentre chi resta nel circuito pubblico sarà costretto a subire un servizio dove l’errore medico non solo è possibile, ma anche non punibile.

E non si tratta di un rischio remoto o ideologico: negli ultimi anni il numero delle denunce per malasanità è aumentato in modo significativo, segno che il problema non è il cosiddetto “accanimento giudiziario” contro i medici, ma una reale e diffusa insoddisfazione dei cittadini per le cure ricevute. Invece di garantire giustizia e trasparenza, il provvedimento crea una zona grigia dove la negligenza può essere agevolmente camuffata da difficoltà operative. Inoltre, lascia in ombra la responsabilità delle strutture sanitarie e delle direzioni ospedaliere, che dovrebbero essere chiamate a rispondere delle condizioni in cui i medici sono costretti a operare. Ma nel testo non vi è traccia di un rafforzamento dei controlli, né di sanzioni per le inefficienze organizzative. Tutto si scarica sul paziente, che nel caso di errore dovrà sobbarcarsi anche il peso di una giustizia che si ritrae.

A ben vedere, quello che viene presentato come un progresso normativo è in realtà un passo indietro sotto il profilo dei diritti civili e della tutela dei più deboli. Uno Stato che sceglie di proteggere in via preventiva una categoria già di per sé forte e ben rappresentata, a discapito dei cittadini più vulnerabili, manda un messaggio chiaro: l’efficienza del sistema conta più della giustizia. Ma in un Paese civile non dovrebbe mai essere così. Le conseguenze di questo scudo penale saranno profonde e difficilmente reversibili. Rischia di abbassare la qualità dell’assistenza, incentivare il disimpegno dei professionisti meno scrupolosi e alimentare un senso di impunità che danneggia gli stessi medici che operano con coscienza e competenza. La tutela della professione non può mai trasformarsi in immunità. Eppure è esattamente questo il rischio che oggi si corre, con un provvedimento che, nel tentativo di limitare il contenzioso giudiziario, finisce per limitare la possibilità dei cittadini di ottenere giustizia. La sanità pubblica non si difende proteggendo i medici dagli errori, ma evitando che gli errori si ripetano. E su questo, purtroppo, la riforma tace.



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