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l'ennesimo

Sciopero dei trasporti, la protesta a spese dei cittadini

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Da sacrosanto diritto a paralisi annunciata: scioperare costa e l'impatto economico ricade sui negozi di stazioni e aeroporti messi in ginocchio dai continui stop nonché sulle fasce più deboli che non possono permettersi un taxi.

Editoriali 20_06_2025
SAVERIO DE GIGLIO - imagoeconomica

Gli scioperi sono diventati una costante nel nostro Paese, con una frequenza allarmante che ormai sfiora le dieci mobilitazioni al mese, soprattutto nel settore dei trasporti, e che si concentra quasi sempre nei giorni di venerdì, ampliando i disagi per milioni di cittadini e creando una condizione di paralisi cronica che mina le fondamenta della vivibilità urbana e della produttività nazionale, con inevitabili ripercussioni anche sul turismo.
Anche oggi è previsto uno sciopero generale di 24 ore nel settore dei trasporti, che paralizzerà aeroporti, stazioni ferroviarie, trasporti pubblici urbani.

Il fenomeno, che in origine rappresentava un diritto sacrosanto a tutela dei lavoratori, ha assunto connotati sempre più destabilizzanti e selettivamente dannosi, in particolare per le fasce più deboli della popolazione che non possono permettersi alternative ai trasporti pubblici e che si trovano costrette ad affrontare il caldo torrido estivo a piedi o con mezzi privati dai costi insostenibili.

L’impatto economico di questa spirale di proteste è impressionante: secondo i dati di Unimpresa, il solo settore ferroviario italiano produce ogni anno perdite per oltre 3,16 miliardi di euro. Una cifra che include 1,8 miliardi di euro persi dagli utenti dei treni ad alta velocità, che ogni giorno subiscono ritardi medi di un’ora, con un danno diretto calcolato in 15 euro a persona. A questa somma si aggiungono 912 milioni di euro persi nel comparto del trasporto merci, che soffre di ritardi sistemici con conseguenze gravi sulla logistica e sulla competitività delle imprese italiane.
Ma non finisce qui: il turismo, già provato da eventi globali come la pandemia, perde 450 milioni di euro l’anno, pari al 3% del fatturato della mobilità ferroviaria turistica, per via della scarsa affidabilità dei treni.

Eppure, a tutto ciò si somma il danno sociale e umano, come dimostra la testimonianza di Chantal Guzzetti, titolare di un piccolo negozio nella stazione metropolitana di Cadorna a Milano, costretta a tenere chiuso il proprio esercizio durante i frequenti scioperi dei mezzi pubblici urbani. “Abbiamo perso due giorni solo a febbraio, tra cui San Valentino, che per noi è fondamentale”, ha dichiarato mesi fa in occasione dell’ennesimo sciopero dell’Azienda di trasporto pubblico milanese Atm, segnalando come le proteste paralizzino del tutto il flusso di passeggeri-clienti e mettano in ginocchio attività già ridimensionate dopo il Covid.

La stessa Atm ha confermato che per motivi di sicurezza non è possibile tenere aperte le gallerie della metropolitana durante gli scioperi, il che però lascia irrisolto il problema della sopravvivenza dei piccoli commercianti. Si tratta, dunque, di un cortocircuito sistemico che colpisce cittadini, imprese e servizi essenziali in modo ormai strutturale. L’esercizio del diritto di sciopero, che dovrebbe essere tutelato, sta diventando troppo spesso una leva utilizzata per scopi che travalicano le legittime rivendicazioni salariali o contrattuali.

È lecito, a questo punto, chiedersi se esista una regia organizzata dietro questa raffica di mobilitazioni, volta più a destabilizzare il sistema che a ottenere soluzioni concrete. Infatti, se da un lato l’alta adesione a certi scioperi segnala un disagio diffuso, dall’altro l’effetto complessivo è quello di un danno sistemico che va ben oltre la dinamica sindacale.
Il governo, che gode oggi di una solida maggioranza parlamentare e si presenta come stabile e coeso, ha tutte le carte in regola per intervenire e ristabilire un equilibrio che tuteli al contempo i diritti dei lavoratori e la continuità dei servizi pubblici essenziali.

Le strade sono due: o si sceglie una via politica, aprendo un confronto autorevole con le parti sociali per ridurre la conflittualità e ottenere un calendario di scioperi meno penalizzante, oppure si interviene sulla legge che disciplina il diritto di sciopero, che risale a oltre trent’anni fa e che oggi si dimostra inadeguata a gestire l’attuale scenario. Servono norme più rigide, capaci di evitare scioperi selvaggi e di garantire che i servizi pubblici non vengano continuamente interrotti in modo strategico per massimizzare il disagio.

Il diritto di scioperare non può trasformarsi in un’arma che paralizza intere città, brucia miliardi di euro e peggiora la qualità della vita dei cittadini. Anche perché, come previsto dalla normativa vigente, ogni sciopero dovrebbe essere preannunciato, regolato e soggetto al controllo della Commissione di Garanzia, con l’obiettivo di bilanciare il diritto del lavoratore con quello della collettività a non subire l’interruzione di servizi vitali.

Tuttavia, questo equilibrio si è ormai rotto. Le sanzioni esistono ma non scoraggiano, i meccanismi di precettazione vengono applicati troppo tardi o troppo blandamente, e così ci troviamo a dover subire l’ennesima giornata senza treni, senza autobus, senza metropolitane, in un’estate in cui la temperatura sfiora i 40 gradi e la sopportazione collettiva è al limite. Chi non può permettersi un’auto o una corsa in taxi, resta letteralmente a piedi. Gli anziani, i lavoratori precari, gli studenti e i commercianti pagano il prezzo più alto di questa deriva. La situazione è insostenibile e rischia di diventare la norma se non si interviene subito con determinazione e senso di responsabilità. Gli scioperi devono tornare a essere uno strumento eccezionale, non una routine del venerdì. Bisogna agire ora, prima che il danno economico diventi irreversibile e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni venga ulteriormente erosa.

 



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