San Paolo VI e i giornalisti, «i profeti della parola»
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Fine intellettuale e uomo di studio, papa Montini aveva ereditato dal padre l'amore per il giornalismo: una professione equiparata a un'arte, che definì «coraggiosa missione al servizio della verità».

Amante delle parole, fine intellettuale, uomo di studio e di preghiera: è stato tutto questo san Paolo VI (Concesio, 26 settembre 1897 - Castel Gandolfo, 6 agosto 1978) del quale oggi ricorre la memoria liturgica. Ma soprattutto uomo di comunicazione. E tutto ciò si comprese fin da subito, fin dall’inizio del suo pontificato. La sua prima “uscita” da pontefice, cinque giorni dopo la sua elezione, fu infatti alla Radio Vaticana. Era il 27 giugno del 1963. Due giorni dopo, il 29 giugno, ci fu l’udienza ai rappresentanti della stampa italiana ed estera. E fu proprio in quell’occasione che papa Paolo VI ricordò le sue origini da giornalista: «Non possiamo tacere una circostanza che ci sembra meritare da parte nostra, sia pure sobria, una discreta menzione; e la circostanza si è che nostro padre, Giorgio Montini, a cui dobbiamo con la vita naturale, tanta, tanta parte della nostra vita spirituale, era, tra l’altro, giornalista. Giornalista d’altri tempi, si sa, e giornalista per lunghi anni, direttore d’un modesto, ma ardimentoso quotidiano di provincia; ma se dovessimo dire da quale coscienza della sua professione e da quali virtù morali sostenuto, pensiamo che facilmente, senza essere trascinati dall’affetto, potremmo tracciare il profilo di chi concepisce la stampa una splendida e coraggiosa missione al servizio della verità, della democrazia, del progresso; del bene pubblico, in una parola».
Già nel ramo familiare era scritto l’amore per le parole che avrebbe avuto Montini sia come assistente della Fuci (la Federazione Universitaria Cattolica Italiana), poi successivamente come sostituto della Segreteria di Stato Vaticana dal 1937 al 1954, e ancora più avanti come arcivescovo di Milano. Nel periodo in cui fu assistente ecclesiastico della Fuci promosse, ad esempio, le riviste dell’associazione quali Studium e Azione Fucina (da lui stesso ideata). Di questo periodo alla Fuci, si contano quasi duecento articoli. Nel lungo periodo del lavoro presso la Segreteria di Stato Vaticana spettò, poi, proprio a Montini il compito di seguire la pubblicazione de L’Osservatore Romano. E come arcivescovo di Milano volle creare due periodici mensili diocesani. Anche a queste pubblicazioni Montini riservò molto del suo tempo, pubblicando numerosi articoli. Anche l’azione di pontefice diede i suoi frutti per la comunicazione: con il motu proprio In fructibus multis del 1964 creò la Pontificia commissione delle comunicazioni; nel 1967, fu proprio papa Montini ad istituire la Giornata mondiale per le Comunicazioni sociali. E fu sempre Paolo VI a volere fortemente la fusione di due importanti quotidiani cattolici quali L’Italia (edito a Milano) e L’Avvenire d’Italia (edito a Bologna): fusione che diede vita ad Avvenire. Era il 4 dicembre del 1968 quando usciva nelle edicole italiane il primo numero del nuovo quotidiano cattolico nazionale.
Ma, facciamo un flashback quasi cinematografico. Ritorniamo al giovane Montini, figlio di giornalista: il capo chino sulla macchina da scrivere, i fogli bianchi che vengono solcati dalle parole. Anno 1919. All’epoca il giovane Giovan Battista aveva 22 anni. Da un anno collaborava alla rivista La Fionda. In un articolo del 2 marzo 1919 troviamo un affresco di quella che doveva essere la redazione dell’epoca e degli ideali a cui quei giovani che avevano costuito la rivista si ispiravano: «Vogliamo essere persone positive, giovani che pensano; ci sforziamo perciò ogni giorno di trarre dal nostro pensiero, dalle nostre idee, il motivo delle nostre azioni. Queste sono le applicazioni pratiche della nostra fede. Risaliamo infatti alle sorgenti delle nostre iniziative: il principio che le fa nascere è un principio soprannaturale. Si era tentato di costruire senza Dio. Oggi innumerevoli mali ci aprono gli occhi». Pensiero più che chiaro. Così come la prosa. Interessante è soprattutto quel «giovani che pensano»: la scrittura dettata dal pensiero e dalla riflessione. E, in fondo, come non ritrovare in questa sua visione uno degli autori del passato preferiti da Montini, sant’Agostino? Non sembra azzardato l’incrocio di stile della prosa: il pensiero che detta alla penna le parole. La riflessione che reca frasi ben precise.
Il tema del valore del giornalismo per Montini meriterebbe un discorso a parte. Cerchiamo, allora, almeno di tratteggiare qualche linea su cui è possibile soffermarsi. Lo spunto ce lo offre un discorso che Montini rivolse a braccio ai rappresentanti della stampa estera il 28 febbraio 1976. Un discorso rimasto inedito fino alla pubblicazione di un piccolo volume dal titolo Paolo VI i giornalisti e i geroglifici, a cura di padre Sapienza (Edizioni Viverein, 2018). In questo, la trascrizione delle parole di papa Paolo VI. Concetti che riescono ad essere di una attualità sconvolgente: «Se noi abbiamo una osservazione, un desiderio da manifestare a voi, è proprio questo: che ci conosciate nella nostra complicazione, nella nostra complessità e diciamo nella nostra ricchezza, di cui siamo eredi e custodi». E ancora: «Bisogna che ci leggiate dentro, bisogna che penetriate questo alfabeto poco conosciuto alla cultura moderna e comune. (...) Noi vogliamo essere letti nel profondo, come se si leggessero dei geroglifici di una piramide – chessò io – egiziana. Se non si legge questo, non si comprende quello che significa quel monumento». Un chiaro invito a essere non solo giornalisti nel senso stretto della cronaca, ma addirittura quasi “indagatori” dell’animo umano, o meglio artisti. In una certa misura l’arte e la stampa, per Montini, erano due binari di comunicazione assai attigui. In un discorso, ad esempio, sempre rivolto alla stampa estera, il pontefice bresciano disse: «I giornalisti sono i professionisti della parola, sono gli esperti, gli artisti, i profeti della parola!».
Il quadro fin qui dipinto, assai impressionista in fondo, non poteva che chiudersi con un ritratto del pontefice realizzato appunto da un giornalista. Alberto Cavallari, giornalista storico del Corriere della sera che intervistò Paolo VI pochi giorni prima della sua partenza per New York per il famoso discorso alle Nazioni Unite, scrisse: «Vedevo un uomo disteso, spontaneo, poco somigliante al papa scarno, teso, oppure introverso, oppure nervoso, oppure diplomatico, che solitamente si descrive. “Ci fa piacere, sa, parlare del Vaticano”, ha detto subito il papa affabilmente, con espressione arguta. “Oggi molti cercano di capirci e di studiarci”». Ancora oggi è così.
San Paolo VI, l’arte è vera se conduce a Dio
Montini aveva un rapporto personale con diversi artisti e durante il suo pontificato diede vita a diverse iniziative culturali. Biasimava certa arte moderna «che ci separa dall’umano, dalla vita» e insegnava che la vera arte deve aiutare l’uomo a incontrare Cristo Risorto.
Paolo VI e Jean Guitton, storia di un’amicizia
Il filosofo francese e Montini si erano conosciuti a Roma nel 1950. Da allora si daranno appuntamento ogni 8 settembre, per la Natività di Maria. Dalla grande amicizia con il pontefice nasceranno due libri di Guitton (Dialoghi con Paolo VI; Paolo VI segreto), che arricchiscono la mente e lo spirito.
PAPA MONTINI E LA MUSICA LITURGICA, di Aurelio Porfiri