Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giovanni I a cura di Ermes Dovico

AFFARI ROSSI

Rivoluzione d'oro: il Che fa viaggi e Ceausescu la birra

Il padre preferiva la leggendaria Norton 500. Sessant’anni dopo, il figlio cavalca una più comoda e yankissima Harley Davidson, sfuggita chissà come all’embargo. La famiglia Guevara unita nella lotta, ma soprattutto negli affari. Il figlio March fa il tour operator e  scorazza i turisti in cerca di emozioni proibite nei luoghi della revolución.

Editoriali 14_12_2014
Ernesto Che Guevara

Il padre preferiva la leggendaria Norton 500 M18 del 1939, mitico modello del blasonato marchio inglese. Sessant’anni dopo, il figlio cavalca una più comoda e yankissima Harley Davidson Road King, sfuggita chissà come all’embargo. La famiglia Guevara sempre unita nella lotta, ma soprattutto nella motocicletta, la stessa i cui diari sono diventati più famosi di quelli del Che in Bolivia. La Norton, ribattezzata “La Poderosa” servì al giovane Ernesto per girare mezza America Latina, prima di trovare la via della guerriglia, la cromatissima Harley serve oggi al figlio March a scorazzare turisti in cerca di emozioni proibite nei luoghi più incantevoli di Cuba e della revolución castrista. «Meravigliosi circuiti che uniscono il piacere dei diversi paesaggi di questa isola meravigliosa», recita il dèpliant dell’agenzia di March, «con il contatto intimo con una parte della storia di una Rivoluzione unica». 

“Poderosa Tours” è il nome dell’agenzia di March Guevara e fa niente se, invece della due ruote british, per gli amanti del “turismo guerrillero” c’è una flotta di Harley Davidson made in Usa nuove di zecca tra cui scegliere quella più adatta ai propri gusti.  Con tanto di guide lungo i percorsi e tecnici esperti pronti a intervenire in caso di guasto meccanico. Il pacchetto è all’insegna del Comandante: si chiamano Fuser 1 e Fuser 2 i viaggi proposti. Fuser era il nome con cui veniva chiamato il giovane Ernesto quando giocava a rugby (Castro preferiva il golf). La prima offerta (costo circa 3mila dollari) propone un percorso classico di sei giorni e cinque notti e propone un itinerario che tocca l’Havana, la Fortezza della Cabana, dove furono eseguite le fucilazioni dei controrivoluzionari, Santa Clara con il mausoleo del Che, fino a Trinidad, Tope de Collantes e Cienfuegos con il suo centro neoclassico.

Per il giro più lungo (9 giorni e 8 notti) ci vogliono 5800 dollari ma ci sono soste di relax nelle principali spiagge e località turistiche dell’isola, come Cayo Santa Maria e Las Terrazas. Perché anche la rivoluzione ha bisogno di sole caldo e sabbia fina. A firmare autografi e ciceroneggiare sui luoghi sacri ai barbudos di Fidel, ci sarà un altro figlio d'arte della Cuba guerrillera: Camilo Sánchez, rampollo dell'Antonio Sánchez Díaz, detto "Marcos", compagno del Che negli altipiani della Bolivia. Padri e figli: un tempo insieme a far fuori gringos e imperialisti, oggi soci in affari per spennare ricchi turisti e attempati rebeldos

Il tour made in Che è l’ultima trovata per sfruttare capitalisticamente un brand che già è tra i più i redditizi e sfruttati del mondo. A partire dalla stravagante idea di metter sul mercato i profumi “Ernesto” e “Hugo” (Chavez), fragranze agli aromi dei tropici e al gusto di mango e papaya, fino agli aromatici puros Cohiba, i sigari preferiti dal Che, o l’Habana Club, il ron più amato da Fidel Castro. I due profumi furono censurati dal regime che li ritenne troppo scandalosi e irriverenti, ma il mercato delle indulgenze rivoluzionarie non è certo andato in crisi per questo.  Ai fan degli eroi caraibici restano pur sempre le t-shirt guevariste celebre effige di Alberto Korda o il pupazzetto di pezza Chavez in bella vista sulle scrivanie dei ministeri e nelle case di Caracas.  Delle magliette sono state vendute milioni di pezzi in tutto il mondo. Un must che amplificò il mito dell’eroe romantico e incompreso, immolatosi per riscattare i campesiños boliviani dalla fame e dallo sfruttamento delle multinazionali nordamericane.

Morte gloriosa, un po’ meno il suo ricordo affidato a un merchandising aggressivo e sfacciato: dalle tazze per il caffellatte alle biro, dai foulard alle camice, perfino lenzuola e spillette per avere un po’ di rivoluzione pret-à-porter. Il guerrillero heroico fu utilizzato qualche anno fa anche dalla Mercedes per lanciare un’iniziativa di car sharing e mobilità a basso impatto ambientale. La scritta “Viva la revolución!” e sullo sfondo una gigantografia del Che, con basco nero e stella: non la rossa dell’insurrezione comunista, ma quella a tre punte della casa automobilistica. Lo scandalo fu grande.

“Poderosa Tours”, nuova frontiera della buffonesca Internazionale dei gadget comunisti ha comunque illustri precedenti. A Bucarest, per esempio, venticinque anni dopo la caduta dello spietato regime comunista, Ceausescu pare diventato il testimonial più popolare e richiesto della Romania. Almeno per pubblicitari e capi degli uffici marketing che hanno trovato nel rais un brand formidabile che fa vendere di tutto. Cioccolato, telefoni cellulari, profumo, birra e perfino profilattici: con il volto incolbaccato del folle dittatore, tignoso e così perfettino da farsi ritoccare le foto malriuscite, vanno via che è un piacere.  

Merito di decenni di culto della personalità, spiegano gli osservatori, ma difficile credere che i romeni possano aver già perdonato quel regime, uno dei più feroci dell’Est comunista. Forse il segreto del successo delle saponette e dei preservativi con sopra il volto di Ceausescu sta nella soddisfazione di poter ridurre a schiavitù, a oggetto di consumo, il dittatore ex semidio, satrapo terribile e crudele. Vendetta trasgressiva e alla portata di tutti. Come mordere la barretta di cioccolato, far squillare il cellulare che gli fa il verso o infilarsi il preservativo dittatoriale. 

Guevara, come Ceausescu, fu un rivoluzionario radicale e spietato, credeva nella pena di morte e la applicò senza riserve contro nemici e amici, reazionari e rivoluzionari pentiti o solo dissidenti. Strano che venga ancora oggi omaggiato come se fosse uno dei padri della Dichiarazione dei Diritti Universali. Resta il fatto che i dittatori comunisti godono si questo strano effetto di schizofrenia simbolica e politica: possono aver commesso i più efferati crimini (e li hanno commessi) ma la loro iconografia resiste nel mito, è più forte di ogni malefatta.  Le stesse insegne del comunismo mondiale sono un brand immortale, sopravvivono, come i revenant vampireschi, al disfacimento delle dittature.

Non così sull’altro fronte. Quei pochi fanatici che oggi sfoggiano croci uncinate, insegne delle Ss e svastiche, fanno il passo dell’oca e stendono il braccio in un comico: heil Hitler, suscitano subito disprezzo e ribrezzo. Giusto così, ma la stessa cosa non succede quando sventolano le rosse bandiere dei Soviet. Eppure, quello che il comunismo reale ha combinato nell’altra metà dell’Europa è gemello del nazismo: lager, milioni di morti, dittatura spietata e una rete poliziesca cui nessuno sfuggiva. 

Nessuno si sognerebbe oggi di portare t-shirt con l’effige di Mussolini, Hitler o Goebbels: i loro minacciosi faccioni vengono tollerati soltanto sulle etichette di certe bottiglie di vino o grappa, riservate a chi ama collezionare gli orrori della storia. Invece, le sagome di Che Guevara, Mao, l’anarchismo rivisto nel logo sciccoso della A bianca cerchiata su fondo nero, Fidel Castro, Chavez, i passamontagna dei Tupamaros o i più trendy zapatisti del comandante Marcos, affollano con orgoglio e baldanza piazze, raduni e sin-in della gioventù sedicente antagonista e pacifista, soprattutto in Italia. Paese, forse uno dei pochi al mondo insieme a Cina e Mongolia, dove esistono un paio di partiti e giornali che hanno testate e bandiere con la parola comunista sormontata da falce e martello.  Perché questa doppia morale e cecità storica? Quali ragioni sostengono l’assurda coazione a delinquere e a sublimare crimini fino al punto da venerarli come atti di giustizia?

Sulla questione ci si potrebbero scrivere tanti libri da riempire una biblioteca a due piani.  Ma c’è una pista che forse varrebbe la pena indagare: parte dal Sessantotto e arriva fino ad oggi. Ecco, lo sdoganamento del comunismo come utopia romantica e risposta messianica al bisogno di giustizia, pace e libertà, è cominciato allora. Qualcuno degli eredi si è dato alla politica, ma sono pochissimi. I più siedono nei cda delle multinazionali, dirigono giornali con la stessa faccia di tolla con cui guidavano i cortei contro la polizia, sono a capo di uffici vendita e agenzie pubblicitarie. Insomma, sono la classe dirigente. Ma sempre con il tic schizofrenico: in ufficio giacca e cravatta, nei week end la t-shirt del Che. E progettano vacanze ai Caraibi con una puntatina a Cuba all inclusive, Harley e Guevara compresi.