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Rifiuto di Dio ed evangelizzazione, di Vittorio Messori

Il rifiuto di Dio non è un fenomeno razionale da contrastare con la dialettica, ma un mistero religioso che richiede un approccio religioso, evangelizzazione e preghiera. Non si richiama gli uomini alla fede con la riforma dell'apparato clericale o con le strategie pastorali. Ce lo dimostra l'esperienza.

Catechismo 16_01_2022

(...) Abbiamo il sospetto che – nel confronto con l’agnosticismo o, meglio, con l’ateismo pratico che contrassegna la nostra epoca – i credenti diano troppo spazio all’aspetto razionale del fenomeno. Quasi fosse cosa che riguarda innanzitutto les raisons de la raison (per usare i termini pascaliani) e quasi per nulla les raisons du coeur. Il quale cuore (per continuare con Pascal, che qui sembra parlare con premonizioni psicoanalitiche; o, più semplicemente, si rifà a Padri come Agostino, esperti in umanità come e forse più che i moderni «specialisti»), il cuore est creux et plein d’ordures, «è cavo e pieno di spazzatura».

Siamo, naturalmente, noi i primi a constatarlo spaventati, quando ci guardiamo dentro senza mentirci. E l’abbiamo tante volte sospettato nei nostri fratelli in umanità, andando in giro a tastare, in interviste, i motivi del rifiuto della fede presso i più accreditati maestri di incredulità. Troppe «ragioni» ci sono sembrate elaborate dopo, per giustificare col pensiero quell’antefatto che è la vita.

Ci parve darcene conferma Leonardo Ancona, lo psicoanalista che, all’Università Cattolica, ha la cattedra che fu di padre Agostino Gemelli. Ci disse Ancona: «Dal punto di vista della psicologia del profondo, il rifiuto di Dio, sia teorico che pratico, appare innanzitutto come un comportamento, dal quale si deriva poi un corrispondente atteggiamento mentale». Il prius è la vita, è le coeur; le «ragioni» vengono dopo, per giustificare – davanti a se stessi e agli altri – il «comportamento» pratico.

Qui non è certo questione di valutazioni morali sui singoli, che solo a Dio spettano. Qui – se la fede ci è cara – si tratta di capire quali siano i meccanismi, quelli almeno intuibili, dell’accettazione e del rifiuto della fede, per tentare di riproporla con efficacia. Un’efficacia di cui, alla prova dei fatti, sembrano mancare da troppo tempo tanti sforzi ecclesiali, pur generosi.

Può servire accumulare pubblicazioni e convegni che si confrontino «oggettivamente» con le «ragioni» dell’incredulità, se dietro questa ci sono «ragioni» che non vengono, innanzitutto, dalla testa, dalle idee, ma dal vissuto, dal soggettivo, dalla misteriosa concretezza dell’esistere? Chi può citare qualcuno che, in questi anni, sia stato persuaso a una nuova, positiva valutazione della fede, sino a desiderare di esserne coinvolto, grazie al «dibattito» tenuto solo sul filo della razionalità? Non c’è «dialogo», pur ricco di argomenti convincenti, che scalfisca certe corazze: è, questo, un dato di esperienza.

Dunque, è forse tempo di tornare – anche qui – alla Scrittura, per la quale l’accettazione o il rifiuto del Cristo non sono innanzitutto un problema intellettuale ma un insondabile mistero religioso (nel quale ha parte proprio quel mysterium iniquitatis che è poi, detto senza eufemismi, uno dei nomi che la Tradizione dà a Satana, il demonio). La superficialità illuminista, l’idea hegeliana della verità che nascerebbe dalla dialettica, ci fanno illudere che tutto potrebbe risolversi con dei bei dibattiti. Ma dobbiamo fare i conti con parole del Nuovo Testamento che oggi a qualcuno, nella Chiesa stessa, sembrano quasi intollerabili: «La luce è venuta del mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque, infatti, fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere» (Gv3,19s.).

E non ci siamo forse tutti noi, dietro i due indemoniati di Gadara che escono «dai sepolcri», cioè dal segno per eccellenza di morte anche morale, e che gridano a Gesù che si avvicina per liberarli: «Che cosa abbiamo noi in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci?» (Mt 8,29). In Luca, addirittura, «tutta la popolazione del territorio gli chiese che si allontanasse da loro, perché avevano molta paura» (Lc 8, 37).

La liberazione offerta dal Cristo per mezzo della fede in lui può fare «molta paura», può essere vista come «un tormento». Se queste sono parole di vangelo, potranno davvero servire le nostre, di parole, fossero pure molte e sapienti, per vincere quel rifiuto che viene dalle pieghe oscure della vita?

Logica, ragione, dialogo, non avranno forse la stessa inefficacia di chi voglia – che so? – aprire una scatoletta di carne con un cucchiaio? Si può persuadere con argomenti asettici, oggettivi, chi non vuole essere persuaso, e rifugge da una «Luce» in cui vede un testimone importuno, un giudice temuto, pur ammantando quel rifiuto con nobili motivazioni «culturali», scomodando magari la «scienza» per convincere innanzitutto se stesso che il vangelo non è che leggenda ormai inaccettabile? Costui potrà spingersi, forse, sino ad ammettere un qualche innocuo e remoto Dieu des philosophes, non certo un Dio che si mischi negli affari nostri, visto come un temibile rompiscatole. «Padre nostro, se davvero sei nei Cieli, restaci per favore! Amen», non è forse la preghiera che oggi, in tanti, siamo tentati di recitare? (…) È la paura degli indemoniati e dei loro concittadini: «Sei forse venuto a tormentarci, scompigliando la nostra autonomia, il nostro desiderio di vivere come ci pare?».

Che fare, allora, se le cose stanno davvero così? Forse, un inizio di risposta è nelle parole del cardinale Ratzinger che, di recente, indicava una priorità all’evangelizzazione: «Dobbiamo mostrare che la morale cristiana non è il carcere dell’uomo, ma il divino che è in lui. Occorre far capire che accettare le leggi del vangelo non significa ridurci in schiavitù, ma liberarci; non è rinunciare alle gioie della vita, ma ricevere un dono che la renda davvero piena». Come mi diceva uno psicologo, forse una parola di Gesù va ripresentata così: «Chi non è con me, è contro di ». «Egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo» (Gv 2,25) e, dunque, non ci ha portato ceppi e catene, ma il libretto di istruzioni per l’uso di noi stessi.

Ma, anche così, bisognerà tener conto ancora una volta della Scrittura: «C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo»; «infatti, acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge che mi rende schiavo del peccato» (Rm 7,20s). A un problema razionale, la risposta adeguata è razionale: il confronto di idee, la discussione. A un mistero religioso come il rifiuto del vangelo, la risposta è religiosa: la riscoperta che, a una catechesi calibrata secondo le più sofisticate scienze umane (pur necessarie, s’intende) occorre unire la consapevolezza che c’è qui il grido dei «diavoli di Gadara».

In questi anni, abbiamo creduto che il richiamare gli uomini alla fede fosse un problema di riforme dell’apparato clericale, di documenti, di liturgie più comprensibili, di di strategie pastorali, di presentazione più moderna dei contenuti del Credo. Cose da fare, e fatte, con ottime intenzioni; ma i risultati? C’è un mistero, qui; anzi, un mysterium iniquitatis scorto dal mistico e non dal sociologo.

Dobbiamo darci da fare. Ma da servi inutili, che sanno amare con il cuore, più che dialogare a parole. Perché «questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera» (Mc 9,29).