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DOPO IL G20

Riduzione del debito ai Paesi africani, l'Italia sbaglia

Il premier Giorgia Meloni, al G20, ritiene "giusta e responsabile" una politica di riduzione del debito dei Paesi africani più poveri. Ma non risolverebbe nulla: il problema è l'irresponsabilità dei governi africani.

Economia 02_12_2025
Giorgia Meloni in Sudafrica (La Presse)

«Per costruire un’Africa capace davvero di competere ad armi pari ovviamente non possiamo ignorare il peso del debito che grava su molte delle Nazioni di questo continente». Sono parole del primo ministro Giorgia Meloni, pronunciate a conclusione del suo intervento alla prima sessione di lavoro del G20 svoltosi in Sudafrica il 22 e 23 novembre. La sessione si intitolava: “Una crescita economica inclusiva e sostenibile che non lasci indietro nessuno: costruire le nostre economie; il ruolo del commercio; finanziamenti per lo sviluppo e l'onere del debito”. «L’Italia – ha proseguito il premier – ha dunque deciso di ridurre, nei prossimi dieci anni, il debito dei Paesi a reddito medio basso del 50% e soprattutto di riconvertire l’intero debito dei Paesi meno sviluppati in piani di investimento per quei Paesi. Una scelta che considero una scelta di giustizia e di responsabilità, che speriamo altri seguiranno. Crediamo che sia questa la strada giusta per costruire sviluppo, e lo possiamo fare insieme, con umiltà e soprattutto con rispetto dell’altro». 

La decisione del governo italiano merita alcune riflessioni. La prima è che i leader africani si aspettano assai di più: vogliono la cancellazione totale dei debiti contratti e subito, non nell’arco di un decennio. Ottenere la cancellazione del debito estero, parziale se non totale, e in tempi brevi, è una delle rivendicazioni insistenti dei governi africani insieme alla richiesta di finanziamenti per centinaia di miliardi di dollari per rimediare – così dicono – ai danni causati all’Africa dal cambiamento climatico antropico e consentirle di avviare la transizione verde e a quella di trilioni di dollari a risarcimento delle conseguenze patite dagli africani, in passato e tuttora, a causa della tratta transatlantica degli schiavi e della colonizzazione europea, questione che l’Unione Africana ha posto come centrale e prioritaria per l’anno 2025.

La seconda riflessione entra nel merito di una iniziativa ritenuta “giusta e responsabile”. È da valutare innanzi tutto quanto lo sia nei confronti dei cittadini italiani, poiché si tratta di denaro che lo stato italiano ha prestato attingendo ai fondi di cui dispone. Ma, come spiegava così bene Margaret Thatcher, “non esiste denaro pubblico; esiste solo il denaro dei contribuenti”, dei cittadini che lo guadagnano. È quindi a loro che lo Stato deve rispondere di ogni euro che spende, in questo caso di ogni euro prestato a governi stranieri al fine di aiutarli a creare sviluppo e benessere nei rispettivi Paesi. La domanda è quanto sia giusto e responsabile, nei confronti dei cittadini italiani, che quel denaro non venga restituito all’Italia, che vada perduto.

La domanda è tanto più pertinente in quanto il motivo per cui il peso del debito grava su quasi tutti i Paesi del continente africano è principalmente che, per usare un eufemismo, i loro governi non amministrano con la dovuta cura il denaro che viene loro consegnato. Il problema è reale. I governi africani continuano ad accumulare debiti. Secondo l’Fmi, 23 Stati sub-sahariani sono troppo fortemente indebitati o rischiano di diventarlo a breve. Persino la Nigeria, prima economia e primo produttore di petrolio del continente, ha un debito che nel 2023 si prevede possa raggiungere i 172 miliardi di dollari e, per evitare il collasso economico, è dovuta ricorrere negli ultimi anni a ripetuti prestiti da parte di Banca Mondiale e Fmi, il più recente dei quali pari a cinque miliardi di dollari. Alla vigilia del G20 Yemi Osinbajo, ex vicepresidente della Nigeria, ha sottolineato la necessità di un'azione urgente: «Oltre la metà dei Paesi africani stanzia ora più fondi per i pagamenti degli interessi che per l'assistenza sanitaria, lasciandoli con scarsi margini finanziari per investire nello sviluppo sostenibile. Un'azione immediata è fondamentale e una svolta deve essere raggiunta».

Eppure la maggior parte dei Paesi africani nel corso degli anni ha già potuto rinegoziare i debiti esteri e ottenerne parte o totale cancellazione. In particolare nel 1996 è stata avviata la Heavily Indebted Poor Countries Initiative (HIPC, Iniziativa per i paesi poveri gravemente indebitati) che impegna i Paesi che l’hanno sottoscritta a contribuire all’estinzione dei debiti contratti con Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale dai Paesi indebitati scelti e a cancellare quelli prestati direttamente nell’ambito di progetti di cooperazione bilaterale. L’Italia vi ha aderito mettendo a disposizione circa cinque miliardi di euro.  Finora ne hanno beneficiato 37 paesi, 31 dei quali africani, per un totale di oltre 100 miliardi di debiti ridotti o del tutto condonati.

Per essere ammessi all’HICP i Paesi hanno ovviamente dovuto dimostrarsi affidabili, garantire buone performance, impegnarsi in politiche e riforme economiche e strutturali efficaci contro la povertà e tali da rafforzarne la stabilità economica. Ma che ne è stato di quei Paesi “graziati”? In cinque, ad esempio – Burkina Faso, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Madagascar, Niger – c’è stato nel frattempo un colpo di stato militare; in tre – Repubblica democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Etiopia – la guerra ha causato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi; uno – la Somalia – non è mai andato al voto e subisce la costante minaccia di uno dei gruppi jihadisti più letali, al Shabaab. In Camerun è stato appena rieletto, per l’ottava volta, Paul Biya, presidente da 43 anni, al costo di decine di dimostranti uccisi, di brogli enormi e della fuga all’estero per aver salva la vita del principale avversario, Tchiroma Bakary, secondo tutti il vero vincitore.

«Restano ancora delle sfide da affrontare –avvertivano i responsabili dell’HICP – per garantire che il peso del debito non ritorni a livelli insostenibili». Zambia e Ghana hanno dichiarato default rispettivamente nel 2020 e nel 2022. Quanto alle comprovate politiche di contrasto alla povertà, il caso più clamoroso è forse quello del Madagascar dove l’esercito ha preso il potere il 12 ottobre, approfittando della rivolta dei giovani della generazione Z che per settimane hanno protestato contro la corruzione e la mancanza di servizi essenziali. Rispetto al 1960, l’anno dell’indipendenza dalla Francia, il reddito procapite dei malgasci è diminuito del 45%. Tre su quattro vivono sotto la soglia di povertà.

Di fronte a simili situazioni l’ulteriore riflessione riguarda se sia davvero giusto e responsabile cancellare i debiti dei governi africani. Sono sempre di più gli africani che, interrogati in merito, risponderebbero negativamente. Qualche anno fa in Kenya era stata fatta girare provocatoriamente sulle reti social una fotografia dell’allora presidente, Uhuru Kenyatta, accompagnata dall’annuncio al mondo intero che il presidente non era autorizzato a chiedere altri prestiti in nome del popolo kenyano e che il Paese e le generazioni future non si sarebbero ritenuti responsabili in alcun modo dei capitali da lui chiesti e ottenuti.

Il suo successore, William Ruto lo scorso anno ha tentato di introdurre nuove tasse come alternativa alla necessità di nuovi prestiti per riempire le casse vuote dello Stato. Ha provato a spiegare che il debito estero del Paese è tale per cui 61 centesimi di ogni dollaro ricavato dalle imposte vanno in restituzione dei capitali ricevuti in prestito e degli interessi maturati. Ma la generazione Z in nome di milioni di cittadini già impoveriti dall’aumento del costo della vita, per i quali l’imposizione di ulteriori tasse sarebbe stata insostenibile, è insorta denunciando il denaro mal speso dal governo, quello sottratto alle casse dello Stato, gli enormi sprechi, i lussi di cui ministri e parlamentari persino si vantano ostentando sulle reti social immagini di ville, piscine, auto costose, viaggi.