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MEDITERRANEO

Profughi, le pedine del gioco europeo della Turchia

Dopo mesi di crisi, la Turchia è stata coinvolta dall'Ue sull'emigrazione. Nella trattativa fra Erdogan e Tusk quest'ultimo ha ceduto su tutta la linea. In cambio di una gestione del flusso dei profughi, la Turchia chiede aiuti miliardari e una ripresa delle trattative per entrare nell'Ue.

Editoriali 17_10_2015
Recep Tayyip Erdogan

Allungando inaspettatamente lo sguardo al di là dei propri nasi i capi di governo dell’Unione Europea hanno scoperto l’altro ieri a Bruxelles che non si può affrontare seriamente la questione dei profughi senza fare i conti con la Turchia. Vive congratulazioni da parte di tutti quelli che, noi compresi, lo sostenevano da tempo. Non è poi ci volesse chissà quale acume: bastava un po’ di buon senso e uno sguardo alla carta geografica. Non si poteva però dire che il re era nudo se prima non lo diceva la Germania. E infine la Germania ha parlato. “Senza lavorare con la Turchia non possiamo gestire o contenere l’afflusso dei migranti”, ha detto il cancelliere Angela Merkel poco prima del vertice dei capi di governo, e da quel momento la luce ha preso il posto delle tenebre.  

Dei quasi 600mila migranti irregolari, che nel corrente anno hanno finora raggiunto il territorio dell’Unione, un numero sempre crescente è arrivato non più via mare dalla Libia bensì dalla Turchia per lo più via terra (salvo i relativamente pochi che, potendo pagare un extra i passatori, accorciano la strada raggiungendo dalle coste turche alcune isole greche ad esse molto vicine). Come già scrivevamo, la Turchia non è un Paese che migliaia di stranieri non autorizzati possono attraversare alla chetichella. I migranti non vengono da noi per conto loro. E’ la Turchia che  ce li manda attingendo alla massa del milione e mezzo di persone, in fuga soprattutto dalla Siria e dall’Iraq, raccolte in campi allestiti nelle sue province sudorientali. Sfruttando e anche in certo modo alimentando il loro desiderio di trovare rifugio in Europa, la Turchia di Recep Erdogăn le usa come strumento di pressione verso l’Ue.

Quest’ultima non ha fatto nulla per contrastare tale mossa e perciò infine ha dovuto cedere. Così in sostanza stanno le cose. Facendo seguito a trattative fra il suo presidente Donald Tusk e Erdogăn, il Consiglio Europeo (così si chiama ufficialmente il vertice dei capi di governo degli Stati membri) ha infatti deciso l’altro ieri che, in cambio di un impegno della Turchia a frenare l’esodo dei migranti verso l’Europa, sarà resa più facile la concessione a cittadini turchi di visti per l’ingresso nei Paesi dell’area di Shengen e verrà dato nuovo impulso ai negoziati per l’entrata della Turchia nell’Ue. Si parla inoltre di un finanziamento europeo alla Turchia dell’ordine di 3 miliardi di euro a titolo di contributo alle spese di gestione dei campi profughi che sorgono sul suo territorio. E’ una bella cifra, tanto più tenendo conto che tale contributo si aggiunge agli aiuti che la Turchia perciò già riceve dalle agenzie specializzate dell’Onu.

Per dare un’ulteriore spinta alla trattativa con Bruxelles, da qualche tempo Ankara aveva spinto i migranti a entrare nell’Ue non più soltanto attraverso il suo confine con la Grecia ma anche attraverso quello con la Bulgaria, che tra l’altro è molto più ampio. Proprio l’altro ieri, mentre a Bruxelles si discuteva della questione, la guardia di frontiera bulgara ha ucciso un migrante afghano che stava cercando di entrare in Bulgaria. E’ stato spiegato che le guardie di frontiera hanno sparato in aria a titolo intimidatorio e che l’uomo è stato colpito da un colpo di rimbalzo. Si resta in attesa di qualche esperto di balistica in grado di spiegare come sia possibile che colpi di arma da fuoco sparati in aria all’aperto possano ribalzare verso il suolo. Alla notizia il premier bulgaro ha fatto immediatamente ritorno a Sofia e perciò non era presente nelle fasi conclusive del vertice.

Come purtroppo tante volte è già accaduto negli ultimi decenni, i migranti in fuga dalla guerra o da altre situazioni di grave insicurezza cominciano a diventare pedine involontarie di giochi e di interessi più grandi di loro. In una lettera pubblicata scorso 12 ottobre, in Italia da Avvenire, padre Ibrahim Sabbagh, frate francescano e parroco della parrocchia di San Francesco ad Aleppo, denunciava con parole accorate le conseguenze negative di una politica che in nome della solidarietà a senso unico mira soltanto ad accogliere chi emigra senza affrontare i problemi che provocano l’emigrazione. “L’Europa deve saper accogliere la parola franca e diretta del Papa che più volte ha invitato ad accogliere i profughi e insieme ha insistito sul dovere di riconoscere le ragioni vere di questa emigrazione per tentare di risolvere i drammatici problemi che ne sono alla radice (…) Purtroppo però diversi Paesi si soffermano – quando lo fanno – solo sull’ascolto della prima parte del richiamo del Papa, chiudendosi e ignorando del tutto la (più difficile) seconda parte”.

Padre Ibrahim osserva inoltre che la migrazione, una via d’uscita dalla tragedia della guerra soprattutto possibile a giovani professionisti e alle loro famiglie, non solo lascia sempre più abbandonato chi resta, ma non è la panacea nemmeno per chi emigra. “Le persone che fuggono si espongono a pericoli non meno gravi di quelli che si corrono restando ad Aleppo sotto le bombe, come testimoniano le tragedie che si consumano in mare o lungo gli itinerari di terra. In parecchi casi di famiglie emigrate si verifica, una volta in salvo, la «rottura» della famiglia stessa”, scrive ancora il sacerdote, a causa dello shock culturale conseguente al cambiamento repentino delle condizioni di vita. Così stanno le cose al di là non solo delle strumentalizzazioni dei potenti, ma anche dell’aiuto maldestro di tante organizzazioni e persone benintenzionate e tuttavia vittime inconsapevoli di pregiudizi ideologici. Non sarebbe ora di cambiare strada?