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MEDITERRANEO

Parole impazzite: sono tutti "rifugiati"

Le parole sono impazzite, nel corso di questa crisi della grande immigrazione. Tutti usano il termine "rifugiato" per indicare chiunque emigri da un paese povero ad uno più ricco, perché "i diritti non si negano a nessuno". La distinzione è invece importante. Perché dovremmo accogliere interi continenti.

Editoriali 13_10_2015
Emigranti alla frontiera ungherese

Quando si parla di emigrazione irregolare, ormai la confusione impera. Nei giorni scorsi si è svolto all’Expo Milano 2015 un convegno organizzato dalla Caritas, dal titolo “Le migrazioni forzate nel Mediterraneo e nel resto del mondo: la terra, fattore di espulsione”. Prima di riportarne il contenuto sulla sua pagina web, la rivista Famiglia Cristiana elencava alcuni dati ricavati dall’ultimo rapporto dell’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: “19,5 milioni di rifugiati fuori dal loro Paese di origine; 38,2 milioni di sfollati interni; (in tutto) 59,5 milioni di migranti forzati”. 

Ovviamente non si dice “sfollati interni” perchè gli “sfollati” sono “profughi interni”, cioè persone che nel mettersi al sicuro non oltrepassano i confini nazionali: dove “profugo” è il termine generico per chi è costretto ad abbandonare la propria residenza in seguito a conflitti armati, persecuzioni e catastrofi naturali. 

Per di più subito dopo, nella stessa frase, i termini “sfollato interno” e “rifugiato” sono stati sostituiti dall’espressione “migranti forzati”. Il perchè di questa sostituzione si capisce leggendo quello che, intervenendo al convegno della Caritas, ha detto il prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento Libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno: “Va molto di moda distinguere tra i rifugiati, coloro che fuggono da guerre e dittature, e i migranti economici, chi fugge dalla mancanza di lavoro, dalla povertà, dalla fame. Secondo queste definizioni, rifugiati sono solo siriani ed eritrei. Gli altri, ad esempio, afghani, nigeriani, somali, sono migranti economici. Questa distinzione è inaccettabile, parliamo di persone. E questa semplificazione ci porta a un arretramento nei diritti che abbiamo conquistato in questi anni”. 

Chi fugge dalla fame non va lontano. Per fortuna a soccorrerlo ci pensa la cooperazione internazionale che assiste quanti più poveri possibile a casa loro. Il prefetto Morcone inoltre ha scelto davvero male i suoi esempi. Gli afghani figurano infatti, e lui dovrebbe saperlo, tra i profughi che in maggior percentuale ottengono lo status di rifugiato in Europa e altrove, preceduti solo dai siriani e dagli eritrei. I somali, insieme ai siriani e agli afghani, costituiscono il 53% dei profughi espatriati di cui l’Acnur si fa carico.  

Per di più, distinguere tra rifugiati ed emigranti non è “molto di moda”. È quel che si è sempre fatto da quando è stato introdotto lo status giuridico, individuale, di rifugiato, definito per la prima volta dalla Convenzione di Ginevra del 1951: uno status accordato a chi ha lasciato il proprio paese temendo, perchè minacciato dal proprio governo o perchè quest’ultimo non è in grado o non è disposto a tutelarlo, di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale. 

Da sempre “emigrante” invece è chi si trasferisce temporaneamente o in maniera definitiva all’estero, o in una regione diversa da quella di origine, a scopo di lavoro, spinto da motivazioni di carattere economico. Distinguere tra rifugiati ed emigranti non è una semplificazione che fa arretrare diritti conquistati negli anni perchè il diritto d’asilo non è mai stato esteso agli emigranti. 

Annullare la distinzione tra rifugiati ed emigranti: questa invece, sì, è una semplificazione, che mira a legittimare l’emigrazione irregolare, imponendo il dovere di accogliere e di ospitare chi lascia il proprio paese clandestinamente. 

È una semplificazione pensare di colmare il divario tra ricchi e poveri con il trasferimento di milioni di persone nelle regioni del mondo altamente sviluppate: la povertà non è una condizione irrimediabile, come dimostrano gli enormi progressi compiuti dall’umanità negli ultimi due decenni, e vivere a casa propria, insieme ai propri famigliari, in libertà, benessere e sicurezza, è il primo diritto di ogni essere umano.  

Ed è una semplificazione dalle conseguenze insostenibili. Se bastasse, ad esempio, la povertà assoluta a legittimare l’emigrazione irregolare, allora più di quattro milioni di italiani potrebbero forzare le frontiere, varcare i confini nazionali e ottenere asilo: come loro, quasi il 70% dei nigeriani, il 32% degli indiani, quasi il 12% dei cinesi e, complessivamente nel mondo, 702 milioni di persone. Se fosse la disoccupazione, potrebbero fare altrettanto oltre il 40% dei giovani italiani, il 70% di quelli sudafricani, l’89% degli abitanti dello Zimbabwe. Se fossero i diritti umani violati, ogni anno avrebbero diritto di accoglienza circa due milioni di bambine, per evitare di subire un intervento di mutilazione genitale, decine di milioni di minori, bambine e adolescenti, per sottrarsi a un matrimonio precoce forzato; 40 milioni di dalit, gli indiani fuori casta, oltre 100 milioni di cristiani perseguitati per la loro fede e 168 milioni di bambini costretti a lavorare, condannati a un’infanzia senza giochi e senza istruzione. Se poi fossero l’ambiente inospitale e gli andamenti climatici avversi, ne avrebbero presto diritto, stando alle previsioni, da 25 milioni a un miliardo di persone.