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La dichiarazione

"Nozze" gay, i vescovi contro lo strappo della Corte UE

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La Comece, presieduta da mons. Crociata, bacchetta la Corte di Giustizia dell’UE per la sentenza che impone il riconoscimento dei “matrimoni” gay contratti in un altro Stato membro. Una sentenza che viola tanto la legge naturale quanto le competenze nazionali.

Famiglia 11_12_2025

Il tentativo di imporre i cosiddetti “matrimoni” gay all’interno dell’Unione Europea (vedi qui) non piace ai vescovi della Comece, la Commissione delle conferenze episcopali della Comunità Europea. La presidenza della Comece, guidata da monsignor Mariano Crociata, ha esaminato la sentenza che la Corte di Giustizia dell’UE ha pubblicato il 25 novembre 2025, nella quale si dispone che gli Stati membri dell’UE debbano riconoscere i “matrimoni” omosessuali legalmente contratti in un altro Stato membro.

E in risposta alla sentenza, i vescovi hanno diffuso il 9 dicembre una dichiarazione per esprimere «considerazioni (…) radicate nella visione antropologica della Chiesa, basata sulla legge naturale, del matrimonio come unione tra uomo e donna». La Comece rileva la sua preoccupazione per l’intervento della Corte di Giustizia su questioni, come quelle del matrimonio e della famiglia, che «sono al centro delle competenze nazionali». Di qui, il richiamo dei vescovi a trattare prudentemente le tematiche con implicazioni transfrontaliere e ad «evitare influenze indebite sui sistemi giuridici nazionali», come avvenuto purtroppo con la sentenza del 25 novembre scorso che «sembra spingere la giurisprudenza oltre i limiti delle competenze dell’UE».

Nonostante il linguaggio molto misurato, è evidente la netta contrarietà della Comece verso la sentenza della Corte di Giustizia, che è in aperta violazione dell’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, laddove si afferma: «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». I vescovi, nel ricordare questo articolo, sottolineano la contraddizione rispetto a quanto affermato dalla Corte con sede in Lussemburgo, la quale da un lato sostiene che l’obbligo contenuto nella sua sentenza «non pregiudica l’istituto del matrimonio nello Stato membro d’origine» e che gli Stati membri «sono quindi liberi di prevedere o meno, nel loro diritto nazionale, il matrimonio per persone dello stesso sesso»; ma dall’altro pretende di obbligare gli stessi Stati dell’UE a riconoscere i “matrimoni” gay contratti in altri Stati membri, usando il pretesto della libertà di circolazione e soggiorno. E ciò nonostante vari Stati dell’UE riconoscano il matrimonio, giustamente, solo come unione tra un uomo e una donna.

Questa non è certo la prima volta che i giudici europei calpestano le competenze nazionali. La Comece sottolinea infatti che «nel recente passato, la stessa preoccupante tendenza è emersa con altre disposizioni chiave dell’UE, quali l’articolo 17 del TFUE [Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea], relativo alla tutela dello status delle Chiese e delle associazioni o comunità religiose ai sensi del diritto degli Stati membri».

Ancora, aggiunge la dichiarazione, la Corte di Giustizia ha mostrato di non tenere nel dovuto rispetto le «identità nazionali» degli Stati membri – come invece prescrive l’art. 4 del Trattato sull’Unione Europea – e il loro ordine pubblico. «Per alcuni Stati membri, la definizione di matrimonio fa parte della loro identità nazionale», sottolinea la Comece, che poi elenca alcune delle conseguenze nefaste di questa invasione di campo dei giudici europei: «La sentenza della Corte dell’UE avrà un impatto sui sistemi giuridici nazionali in materia di diritto di famiglia e potrebbe esercitare pressioni affinché questi vengano modificati. (…) Vi è anche un impatto sulla certezza del diritto, poiché sempre più Stati membri non saranno in grado di prevedere in modo chiaro quali parti del loro diritto di famiglia rimarranno di loro competenza». E questo quando tali dubbi non dovrebbero esserci, proprio perché non è competenza dell’UE «armonizzare il diritto di famiglia».

L’uso strumentale delle questioni transfrontaliere preoccupa, a ragione, la Comece anche rispetto a un altro tema ricorrente nelle nostre società post-cristiane e cioè che, nel solco della sentenza del 25 novembre scorso, vengano seguiti «approcci giuridici simili in materia di maternità surrogata». E una deriva simile, aggiungiamo noi, potrebbe avvenire in tema di aborto, tanto più che è già all’esame del Parlamento Europeo un progetto di risoluzione per finanziare l’aborto transfrontaliero e «contrastare i movimenti anti-gender», come vengono chiamati oggi i gruppi a difesa della vita nascente e della famiglia naturale fondata sul matrimonio.

Degna di nota anche la stoccata finale che la presidenza della Comece dà alla Corte di Giustizia. Una stoccata che è anche un avvertimento a non usare l’“europeismo” come un grimaldello per scardinare la legge morale naturale. «Non sorprende che questo tipo di sentenze – scrive la Comece – dia adito a sentimenti antieuropei negli Stati membri e possa essere facilmente strumentalizzato in tal senso». A tirarla troppo, la corda si spezza.



La sentenza

Lo stratagemma della Corte UE per imporre le “nozze” gay

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che ogni Stato dell’UE deve riconoscere il “matrimonio” gay contratto in un altro Stato membro. I giudici fanno leva sulla libertà di circolazione, in realtà un pretesto per intaccare la sovranità nazionale e giungere infine all’imposizione di leggi pro “nozze” arcobaleno.

Il progetto di risoluzione

Fondi UE per l’aborto, la richiesta delle lobby della morte

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La Commissione per i diritti delle donne approva un progetto di risoluzione con cui si chiede di finanziare l’aborto transfrontaliero e «contrastare i movimenti anti-gender». Poi, l’assurdo parallelo: come l’UE ha dato soldi per lo screening dei tumori, così deve darli per l’aborto.

comece

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