Netanyahu e Zelensky, in guerra senza possibilità di vittoria
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I leader di Israele e Ucraina vogliono continuare a combattere malgrado non abbiano possibilità di raggiungere i loro obiettivi militari: la distruzione di Hamas e la riconquista dei territori in mano russa. L'unica spiegazione possibile è che con il cessate il fuoco perderebbero la loro leadership politica, così come alcuni leader europei.

Un filo comune sembra unire Benjamin Netanyahu a Volodymyr Zelensky: entrambi vogliono continuare a combattere guerre che hanno ampiamente dimostrato di non essere in grado di vincere sul campo di battaglia. In pratica, nessuno dei due statisti ha raggiunto gli obiettivi militari che si era prefissato, né sembra essere in grado di raggiungerli.
Netanyahu aveva dato il via alle operazioni a Gaza il 27 ottobre 2023 in risposta all’attacco di Hamas di 20 giorni prima con l’obiettivo dichiarato di distruggere militarmente la milizia palestinese. Che è stata indubbiamente indebolita ma non è stata annientata. A essere completamente distrutta è stata invece la Striscia di Gaza, che l’esercito israeliano ha occupato per poi ritirarsi da molte aree e in queste ore ricominciare ad avanzare per riprenderne il possesso.
Anche sugli altri fronti non è andata meglio. Israele ha distrutto molti centri del Libano meridionale e alcuni quartieri di Beirut uccidendo molti miliziani di Hezbollah che però mantiene ampie capacità militari.
In Cisgiordania gli scontri continuano e la minaccia di riempire la regione di colonie ebraiche e cacciarvi i palestinesi non si è ancora concretizzata mentre in Siria gli israeliani hanno occupato la regione meridionale pur senza aver subito attacchi da quel confine dopo la caduta del regime di Bashar Assad.
Gli Houthi yemeniti sono ancora in grado di colpire Israele con missili e droni; l’accordo che la milizia ha stipulato con gli Stati Uniti ha portato alla fine degli attacchi ai mercantili in transito tra Golfo di Aden e Mar Rosso in cambio della sospensione dei raid americani ma non riguarda gli attacchi allo Stato ebraico.
In questo contesto Netanyahu minaccia di attaccare i siti nucleari dell’Iran proprio mentre Donald Trump tenta faticosamente di negoziare con Teheran. Un’opzione militare che non offre peraltro alcuna garanzia di successo a Israele poiché i siti atomici, come quelli missilistici, sono stati da tempo trasferiti in bunker situati molte decine di metri sotto terra o all’interno di montagne, al riparo anche dalle più potenti e precise bombe a penetrazione.
Inoltre l’Iran ha dimostrato l’anno scorso di possedere missili che per velocità e manovrabilità sono in grado di colpire Israele senza farsi intercettare.
In risposta alle dure critiche di Trump, che ha addirittura minacciato di riconoscere lo Stato di Palestina, il premier israeliano ha annunciato che occorre prepararsi a combattere anche senza l’aiuto statunitense.
Frase patriottica ad effetto ma che esprime però un concetto inapplicabile sul piano finanziario e militare. Israele combatte da 20 mesi grazie agli aiuti militari aggiuntivi statunitensi per 10 miliardi di dollari, soprattutto munizioni, forniti nel 2024, senza i quali non avrebbe potuto alimentare l’offensiva a Gaza.
Senza di essi l’industria della Difesa israeliana non sarebbe in grado di produrre armi e munizioni a sufficienza per alimentare tutti i fronti di guerra aperti da Israele.
Karnit Flug, ex governatore della Banca d'Israele e attuale ricercatrice senior presso l'Israel Democracy Institute (IDI) ha affermato che la ripresa dei combattimenti a Gaza e l'aumento del fabbisogno di finanziamenti per la difesa potrebbero mettere a rischio i servizi pubblici israeliani, già sotto pressione, come ospedali, scuole e trasporti.
Si teme che l'incombente minaccia di sanzioni economiche da parte degli alleati occidentali possa ulteriormente compromettere la qualità della vita degli israeliani, limitare i motori di crescita del Paese e innescare un massiccio deflusso di contribuenti e capitale umano, ha ammonito Flug, che presenterà a breve i risultati di uno studio sulle ripercussioni del cambiamento di priorità di bilancio da parte del Governo dallo scoppio del conflitto. Lo studio esamina anche le implicazioni che il previsto aumento della spesa per la difesa potrebbe avere sulla spesa civile e sui servizi pubblici.
La guerra senza vittoria di Israele non è più sostenibile in termini militari e finanziari.
In Ucraina le cose non vanno meglio per Zelensky le cui truppe perdono terreno ogni giorno su tutti i fronti. Kiev non ha nessuna possibilità di riconquistare i territori perduti e neppure di riuscire a fermare l’avanzata russa.
La difesa area è ormai priva di missili e l’Occidente non può fornirne altri mentre quelli nuovi ordinati alle aziende produttrici potranno consegnarli forse tra 12 o 18 mesi. Senza difesa aerea gli stabilimenti industriali ucraini sono alla mercè dei sempre più intensi bombardamenti russi.
Scarseggiano anche le munizioni d’artiglieria mentre le perdite tra i militari di Kiev sono talmente eleva da provocare proteste tra gli ufficiali e rischi di ammutinamento tra le truppe: diverse fonti, anche ucraine, valutano che in assenza di un accordo per il cessate il fuoco le forze di Kiev possano collassare entro fine giugno.
Un articolo del giornale svizzero Les Temps ha parlato della stanchezza dei soldati ucraini, giunti al limite delle loro capacità tra perdite enormi, massicce diserzioni e renitenza alla leva e difficoltà nel reclutamento forzato. I russi invece continuano ad arruolare volontari a contratto: 175 mila dall’inizio dell’anno, 35 mila al mese secondo fonti di Mosca che sono in linea con le valutazioni ucraine che ne stimano oltre 1.200 al giorno e quelle della NATO circa 30 mila al mese.
Per il presidente della Commissione Difesa della Duma russa, Andrei Kartapolov, «l’Ucraina ha sufficienti risorse rimaste per supportare azioni militari attive per circa un mese. Dopo questo periodo, con ogni probabilità, non assisteremo più ad azioni tanto intense quanto quelle attuali, da parte loro. Gli europei ne sono pienamente consapevoli e ben informati in proposito. L’intera posizione dell’Occidente (a proposito del cessate il fuoco) si basa sulla constatazione di questo fatto. È chiaro, lo sappiamo, ed è per questo che non abbiamo intenzione di accettare un cessate il fuoco».
La valutazione del parlamentare russo sembra trovare conferme negli Stati Uniti e nella stessa Ucraina. Un rapporto del Pentagono dello scorso settembre stimava in 7/9 mesi la capacità residuale di resistenza ucraina. A fine gennaio di quest’anno il capo dei segreti servizi militari ucraini Kirylo Budanov, riferì che in assenza di un accordo entro 6 mesi l’Ucraina avrebbe rischiato un processo disgregativo.
Come ha detto il mese scorso l’ex consigliere presidenziale Oleksy Arestovic, l’Ucraina può perdere oggi Crimea e altre quattro regioni accettando le condizioni poste da Mosca, oppure continuare a combattere e tra sei mesi perderne setto o otto.
Per Zelensky vale lo stesso interrogativo che si pone per Netanyahu: perché continuare a combattere guerre che con tutta evidenza non si possono vincere?
L’unica risposta plausibile è che la sconfitta determinerebbe per entrambi i leader il forte rischio, se non la certezza, di vedere conclusa la propria parabola politica. In poche parole, perderebbero poltrona e potere.
Una spiegazione che a ben guardare sembra costituire la motivazione che muove molti leader europei, da Ursula von der Leyen ai suoi commissari fino ai leader di Germania, Francia, Gran Bretagna e altre nazioni, tutti protesi a far continuare un conflitto, in cui muoiono peraltro solo gli ucraini, la cui conclusione renderebbe manifesto il loro già evidente fallimento politico, economico e militare.
Per tutti loro la missione sembra essere una sola: sacrificare inutilmente vite per conservare temporaneamente le poltrone.
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