Mengoni e Germano: la sinistra ha due nuove vittime
Mengoni "piange" ignorando lo schiavismo dell'utero in affitto; Germano si lagna per il cinema italiano in mano al governo fascista, tacendo che se è in crisi è per colpa di storie e produzioni conformiste. La sinistra ha trovato due nuove vittime da spennare.

Il fatto che il cantante Marco Mengoni pianga sull’ultimo numero di Vanity Fair (guarda un po’, sono sempre gli stessi giornali della rivoluzione) perché non si sente rappresentato a vivere in un paese come l’Italia che vieta la pratica della “gestazione per altri” dovrebbe suscitare una sonora pernacchia. Invece il popolo della Sinistra esulta, perché non ha altro a cui aggrapparsi e in tempi di magra vanno bene anche i cantanti di regime, che fanno le vittime dall’alto del loro conto in banca milionario per i diritti che non vengono riconosciuti a quelli come lui.
Vittime e pure incoerenti con loro stessi, se si pensa che nella stessa intervista, Mengoni riesce a fare il piangina per la solita menata dell’utero in affitto come reato universale e contemporaneamente a ringraziare la povera madre da poco defunta per avergli dato la vita. Il rapporto madre/figlio va bene per lui, ma evidentemente non va bene per i tanti bambini costruiti in provetta per l’egoismo degli schiavisti del nuovo millennio che non conosceranno mai la loro madre biologica dalla quale verranno strappati.
Schiavisti. Sì, perché difendere e praticare ancora oggi l’utero in affitto è roba da schiavisti, non esistono altre definizioni se prendiamo per buono quello che la Treccani dà come secondo significato della parola schiavismo: «la prassi di considerare e trattare come schiavi popoli o individui politicamente, economicamente o socialmente dipendenti». Che cos’è allora un bambino prodotto artificialmente per le dipendenze dei suoi committenti, se non schiavismo?
Ma queste cose non interessano al sistema mediatico ed evidentemente non interessano nemmeno a Mengoni, il quale pensa di ritagliarsi così un piccolo spazietto di notorietà continuando a gridare al regime mentre pubblicizza il suo nuovo album dal quale ricaverà grande ritorno economico. Se dunque non si sente rappresentato dall’Italia, si accomodi pure nei paesi dove questa pratica aberrante è promossa e tutelata, facendo ben attenzione che il campo delle disponibilità si sta restringendo viepiù.
Nella Spagna tanto amata dalle truppe brancaleonesche Lgbt, ad esempio, il 2 maggio scorso è entrata in vigore una stretta proprio sulla pratica dell’utero in affitto. La nuova norma sospende immediatamente tutti i processi di registrazione di nati all'estero da gestazione per altri e renderà molto più difficili future richieste. Dove si sentirà rappresentato il povero Mengoni? Scommettiamo che resterà in Italia perché solo qui si può continuare a gridare al regime e nel frattempo riempire i palasport e avere le copertine dei principali rotocalchi.
Un altro che piange da vittima contro il governo e che si è messo in testa l’elmetto di salvatore del mondo col portafoglio gonfio, è Elio Germano, che, ricevendo l’altra sera il David di Donatello per la sua interpretazione di “Berlinguer”, si è esibito in un pippone zuccheroso sulla dignità da far impallidire l’intera filiera produttiva della Ambrosoli, quella del miele: «Parità di dignità vuol dire che tutte le persone devono essere degne allo stesso modo. Una persona povera deve avere la stessa dignità di una persona ricca, deve poter accedere all'istruzione, alla sanità e una donna deve avere la stessa dignità di un uomo, un nero la stessa dignità di un bianco, un italiano la stessa dignità di uno straniero e permettetemi di dire un palestinese la stessa dignità di un israeliano».
La mossa, com’era prevedibile, ha suscitato l’ovazione del popolo della Sinistra che, almeno sui social, lo ha eletto a eroe. Per aver detto banalità, condite con il solito attacco al governo, perché se non attacchi il governo in carica, che è fassista, non sei nessuno e soprattutto se hai appena ritirato il premio per il biopic sull’ultimo leader che la sinistra comunista ha avuto da 50 anni a questa parte.
E così ha preso di mira il ministro della Cultura Alessandro Giuli, attribuendogli addirittura la responsabilità della crisi del cinema italiano «a causa delle sue nomine da capo clan e che non si confronta con la nostra categoria», ha sentenziato come se il lavoro dell’attore fosse quello di un rappresentante sindacale della Fiom.
Ora, questo giornale non è mai stato tenero con il vaporoso successore di Sangiuliano al Collegio romano, ma dare la colpa della crisi del cinema di casa nostra ad un intellettuale dall’eloquio forbito che occupa la poltrona da appena otto mesi è cosa che fa ridere i polli. Ma l’intellettuale sinistrorso engagè e à la page, ruolo che Germano interpreta meglio di alcune sue performance piuttosto nervose (non però l’Isola delle rose, quello no, lì è stato veramente bravo), è fatto così: deve portare avanti la causa. E la causa da quando c’è Giorgia Meloni a Palazzo Chigi è che il cinema è in crisi per colpa del governo nero.
La verità, e chiunque ha il coraggio di guardare qualche pellicola di casa nostra lo sa bene, è che la crisi del cinema italiano affonda le sue radici da molto tempo nell’assoluta mancanza di originalità e personalità dei suoi artefici, attori compresi, che inseguono l’ideologia woke e presentano sempre storie stanche e mainstream, sessuomaniche, rancorose e per nulla capaci di far sognare, conficcati nella comfort zone di narrazioni conformiste e politicamente corrette. Per carità, qualche cosa c’è, ma quel poco di buono non emerge perché alla fine a ritirare i premi ci vanno sempre i soliti. Come Germano, ad esempio, al quale evidentemente interessa il ruolo di capopopolo del conformismo imperante in forma di celluloide, mica quello di eroe.