Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Alberto Magno a cura di Ermes Dovico
ISRAELE E PALESTINA

Medio Oriente, nessuno crede più alla fiaba dei due popoli in due Stati

Ascolta la versione audio dell'articolo

"Due popoli in due Stati" è il mantra diplomatico per la soluzione del conflitto in Medio Oriente. Dare uno Stato agli ebrei e uno agli arabi fu proposto per la prima volta nel 1947. Gli arabi rifiutarono. E da quel rifiuto, che tuttora persiste, derivò tutto il resto.

Esteri 04_11_2023 English
Il muro in Cisgiordania

Ora anche papa Francesco, nell'intervista rilasciata il 1° novembre al direttore del TG1, ha indicato l'obiettivo dei “due popoli, due Stati” come l'unica possibile soluzione al conflitto arabo-israeliano. Ma il pontefice è soltanto l'ultimo di una lunga, anzi interminabile serie. Ogni volta che la violenza in Medio Oriente torna ad esplodere, la gran parte dei leader politici mondiali, compresi quelli occidentali, torna a invocare la nascita di uno Stato nazionale palestinese che conviva con quello ebraico.

Ma quella formula viene utilizzata prevalentemente senza specificare le modalità attraverso le quali l'obiettivo potrebbe essere concretamente raggiunto, né i motivi a causa dei quali non è stato raggiunto fino ad ora. Essa viene ripetuta come un mantra, quasi fosse un talismano, perché utile a cavare momentaneamente d'impaccio chi la pronuncia rispetto agli enormi problemi di politica internazionale, di sicurezza, di convivenza civile che si pongono a qualsiasi governo o paese sia costretto a mettere le mani dentro questo inestricabile e avvelenato ginepraio. In ogni caso, sempre più nel tempo essa è andata perdendo riferimenti di contenuto, ed è diventata sostanzialmente un puro artificio retorico. Nessuno degli attori politici che ad essa ricorrono, e nessuna delle parti direttamente o indirettamente in causa nel conflitto alle quali essa è rivolta, crede nella sua effettiva realizzabilità.

In realtà si può dire che la soluzione dei due popoli e due Stati rappresentò storicamente non la soluzione, ma la premessa del conflitto arabo-israeliano. Infatti quando l'Assemblea generale dell'Onu nel 1947 votò a larga maggioranza la Risoluzione 181 per la suddivisione della regione denominata Palestina, sottoposta dopo la fine dell'Impero Ottomano al mandato britannico, tra uno Stato arabo e uno ebraico - cercando di porre fine a una lunga disputa resa ancor più drammatica dallo sterminio nazista degli ebrei europei e dall'appoggio del Gran Muftì di Gerusalemme al-Husseini a Hitler - quella risoluzione venne respinta dai paesi arabi sotto la spinta del montante nazionalismo panarabo. E quando nel maggio 1948 fu proclamata la nascita di Israele, quest'ultimo venne attaccato militarmente da quei paesi, che intendevano cancellarlo e cacciare via gli ebrei immigrati.

La storia della cosiddetta “questione palestinese” è innanzitutto, per molti decenni, la storia del rifiuto ostinato da parte araba di riconoscere l'esistenza legittima di Israele. Fu quel rifiuto a ispirare, per calcolo  politico, la scelta di Giordania ed Egitto di non assimilare gli arabi cacciati o fuggiti da Israele dopo la prima guerra, ma di mantenerli nella condizione di profughi. Ed è su quel rifiuto che fu fondata l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, e fu “inventato” ex post un “popolo palestinese” (arabo) che precedentemente non aveva mai avuto un'identità nazionale specifica. Soltanto dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, con la bruciante vittoria preventiva degli israeliani e l'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Sinai, e poi dopo la guerra del Kippur del 1973 si cominciò a parlare in sede internazionale – con il consenso di alcuni settori della classe politica israeliana e araba – di un possibile scambio “pace contro territori”, e quindi di un possibile spiraglio per uno Stato arabo palestinese proprio in Cisgiordania e Gaza, che convivesse con quello ebraico.

Dopo estenuanti vicende e trattative, quello spiraglio fu alla base degli Accordi di Oslo del 1993 tra Rabin e Arafat, e poi della proposta degli israeliani a Camp David nel 2000 di uno Stato palestinese sull'85% dei territori stessi. Ma quella proposta – questo è il punto fondamentale – fu rifiutata proprio da Arafat, mentre l'Olp era ormai incalzata da posizioni ben più radicali ispirate non più al nazionalismo arabo ma al fondamentalismo/integralismo islamico, come quelle della Jihad isalmica e di Hamas, aizzate da poteri destabilizzanti come il regime integralista degli ayatollah iraniani.

Il successivo, estremo tentativo di incanalare di nuovo una possibile trattativa sul binario dei “due popoli, due Stati” fu intrapreso dal 2002 per iniziativa di George W. Bush (desideroso di spegnere il conflitto nell'area nel momento della ben più ampia contrapposizione con l'integralismo islamico seguita agli attacchi dell'11 settembre) con la Road Map for Peace, sostenuta dal “quartetto” formato da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu. E fu nello spirito di questo tentativo di conciliazione, oltre che di una crescente convergenza con Egitto e Giordania, che nel 2005 il primo ministro Sharon decise unilateralmente di ritirare le truppe israeliane da Gaza.

Purtroppo, come è noto, quel ritiro non fu la premessa dell'evoluzione dell'Autorità palestinese verso una democrazia animata da volontà di convivenza con lo Stato ebraico, ma al contrario l'inizio della presa di potere di Hamas (il cui statuto prevede l'obiettivo primario e non negoziabile della distruzione di Israele) con un consenso elettorale largamente maggioritario, e del regolamento di conti armato tra gli estremisti fondamentalisti e Fatah. Oggi è proprio la prevalenza di Hamas e delle forze islamiste che puntano alla destabilizzazione di tutta l'area – enormemente incrementate nell'ultimo ventennio – ad aver reso del tutto impraticabile la soluzione dei “due popoli due Stati”. È logicamente impossibile la convivenza tra due Stati nazionali vicini quando la  corrente decisamente prevalente nella politica e nell'opinione pubblica di quello che dovrebbe essere uno dei due, sostenuta da una rilevante parte dell'opinione pubblica nei paesi islamici, ritiene che il vicino non debba esistere, e appena ne ha la possibilità pratica cerca di distruggerlo.

I tragici eventi del 7 ottobre scorso non sono un incidente ma la conseguenza inevitabile di questa situazione. Finché Hamas e altri gruppi dalla simile impostazione esisteranno, finché esisteranno i regimi islamisti come l'Iran che se ne servono, finché Giordania ed Egitto (ed Arabia Saudita) non si assumeranno la responsabilità politica effettiva dei territori, garantendo la convivenza con Israele, parlare di “due popoli due Stati” è soltanto un inconcludente flatus vocis. Ammesso pure che la diplomazia internazionale riuscisse, miracolosamente, a farlo nascere, l'eventuale Stato arabo palestinese sarebbe solo una versione più ampia di ciò che oggi è Gaza, o il Sud Libano controllato da Hezbollah: una enorme base terroristica sempre pronta a infiammare tutto il Medio Oriente e a destabilizzare il mondo.