Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi

EDITORIALE

Matrimoni gay, se i giudici rieducano il popolo

Anche in Utah e New Mexico viene imposto il matrimonio gay per via giudiziaria, malgrado la popolazione fosse contraria. La tecnocrazia dei giudici ha ormai sostituito la democrazia, una deriva non solo americana.

Editoriali 23_12_2013
Nozze gay

Una settimana dopo la storica sentenza di un tribunale federale che liberalizza la poligamia nello Stato americano dello Utah – dove i mormoni, la maggioranza della popolazione, sono stati poligami fino al 1890 e ancora oggi alcuni gruppi scismatici, condannati dalla Chiesa Mormone maggioritaria, mantengono la pratica – è arrivata il 20 dicembre 2013, sempre nello Utah, un’altra sentenza che impone agli ufficiali di stato civile di celebrare «matrimoni» omosessuali. La sentenza ha effetto immediato: sabato nelle diverse contee dello Stato persone dello stesso sesso hanno cominciato a «sposarsi». Il giorno prima, il 19 dicembre, la Corte Suprema statale del New Mexico aveva emesso un’analoga sentenza, dichiarando incostituzionale il rifiuto delle contee dello Stato di rilasciare licenze a coppie dello stesso sesso che intendono contrarre «matrimonio». E anche qui i gay hanno subito dato il via ai «matrimoni», orchestrando eventi che hanno ottenuto notevole eco sui media locali e anche in Italia su «Repubblica», che peraltro è incorsa in un curioso incidente confondendo il New Mexico, uno Stato degli Stati Uniti, con il Messico, dove il «matrimonio» omosessuale è stato peraltro introdotto nella capitale, Città del Messico, nel 2009 e nello Stato di Quintana Roo nel 2011.

Con Utah e New Mexico, diciotto dei cinquanta Stati degli Stati Uniti hanno introdotto il «matrimonio» omosessuale, insieme al Distretto di Columbia – che comprende la capitale Washington – e a otto giurisdizioni tribali che esercitano la loro autorità su riserve indiane. La sentenza della Corte Suprema di Washington del 26 giugno 2013 nel caso «United States vs Windsor» ha dichiarato incostituzionale l’interpretazione a livello federale della nozione di «matrimonio» come riferita solo a un uomo e a una donna, ma a rigore non ha obbligato i singoli Stati a introdurre il «matrimonio» omosessuale nella loro legislazione. Tuttavia lo stesso giorno la Corte Suprema nel caso parallelo «Hollingworth vs Perry» ha annullato come incostituzionale il referendum del 2008 con cui gli elettori della California avevano rifiutato il «matrimonio» omosessuale. Anche in quel caso, i «matrimoni» tra persone dello stesso sesso sono iniziati in California a poche ore dalla sentenza.

Le due sentenze del New Mexico e dello Utah sono diverse. Nel New Mexico la tecnica usata dagli attivisti favorevoli al «matrimonio» gay è stata quella di trovare ufficiali di stato civile disposti a disubbidire alla legge in vigore e celebrare «matrimoni» fra persone dello stesso sesso. Quando i loro superiori hanno cercato di punirli, hanno fatto loro causa e sollevato la questione della costituzionalità (statale) della legge del New Mexico che considerava matrimonio solo quello fra un uomo e una donna, determinando la decisione della Corte Suprema dello Stato che l’ha dichiarata incostituzionale.

Si tratta di una strategia che gli attivisti LGBT hanno tentato di usare anche in altri Paesi, e che l’episodio del New Mexico potrebbe rilanciare. Nel 2010 a Torino l’allora sindaco Sergio Chiamparino (PD) «sposò» due lesbiche – sostenendo poi che si trattava di un gesto puramente «simbolico» – e le organizzazioni LGBT diedero il via alla campagna «Mille Chiamparino», incitando i sindaci a violare la legge e a «sposare» coppie dello stesso sesso, per poi farsi incriminare e sperare in un intervento dei giudici che avrebbe introdotto anche in Italia il «matrimonio» omosessuale per via giudiziaria. Ma nessun giudice perseguì Chiamparino, né si trovarono altri sindaci avventurosi, e la campagna morì lì. I giudici del New Mexico rischiano ora d’indurre qualcuno a riprenderla.

Lo Utah è uno degli Stati americani dove si sono celebrati referendum sulla questione del «matrimonio» omosessuale. Nel 2004 una solida maggioranza del 65,8% votò per affermare che il matrimonio è solo fra un uomo e una donna. In trenta Stati dei cinquanta che compongono gli Stati Uniti gli elettori si sono espressi nello stesso senso – compresa la California, dov’è nato il movimento LGBT – mentre solo nel Maryland e nel Maine nel 2012, sulla scia della vittoriosa campagna elettorale di Obama e con referendum celebrati lo stesso giorno delle elezioni presidenziali, gli elettori hanno votato per l’introduzione del «matrimonio» omosessuale. Nonostante questi «gol della bandiera» realizzati a fine partita, i sostenitori dei «matrimoni» omosessuali negli Stati Uniti hanno perso i referendum con un risultato per loro imbarazzante: trenta a due.

La sentenza dello Utah è figlia di quella della Corte Suprema federale sulla California. Infatti – a differenza della decisione del New Mexico, uno Stato dove non erano stati celebrati referendum – nello Utah il giudice federale se l’è presa direttamente con il referendum del 2004, annullandone nove anni dopo i risultati. La sentenza è particolarmente interessante e inquietante perché ribadisce il diritto – che secondo la decisione è anche un dovere – dei giudici di «rieducare» gli elettori quando sbagliano, non tenendo alcun conto della volontà popolare e imponendo loro tesi «politicamente corrette» anche quando la maggioranza le rifiuta. Non si tratta più di giustizia, ma – per usare un’espressione di Benedetto XVI – di tecnocrazia. L’elettore vota bene? Il giudice lo premia. L’elettore sbaglia? Niente paura, il giudice illuminista – espressione di un’élite tecnocratica, che ne sa di più del popolo ignorante – lo corregge, lo bastona e fa anche pagare allo Stato – cioè ai contribuenti, dunque agli stessi elettori – le ingenti spese della pluriennale causa.

A prima vista le due sentenze che in una settimana hanno cambiato la storia dello Utah – una legalizzando la poligamia e la seconda introducendo il «matrimonio» gay – vanno nello stesso senso. Entrambe negano che l’unione che lo Stato considera lecita e produttiva di effetti giuridici sia solo quello fra un uomo e una donna. C’è però una differenza fondamentale. La sentenza sulla poligamia sostiene che il costume è cambiato e che ormai la maggioranza dei cittadini non è più scandalizzata dalla poligamia. La sentenza sugli omosessuali afferma precisamente il contrario. I giudici sanno perfettamente che non solo nel 2004, quando fu celebrato il referendum, ma anche oggi, nel 2013, la grande maggioranza dei cittadini dello Utah è contraria al «matrimonio» omosessuale. Il tribunale conosceva i sondaggi, unanimi, e conosceva anche l’opinione della Chiesa Mormone, di cui si dichiara parte – stando all’ultimo censimento, del 2010 – il 62% della popolazione dello Utah, che è risolutamente contraria al «matrimonio» omosessuale e ora ha energicamente protestato contro la sentenza. Per inciso, la Chiesa Mormone è contraria anche alla sentenza sulla poligamia, perché considera coloro che la praticano «eretici» ancora renitenti, dopo decenni, ad accettare la riforma del 1890 con cui la stessa Chiesa ha cessato la pratica dei matrimoni poligami.

Ma l’opinione della maggioranza – che ha spinto lo Stato dello Utah a fare appello, e numerosi ufficiali di stato civile a rifiutarsi di applicare la sentenza, rischiando però il carcere – secondo i giudici è irrilevante. Quella che conta è l’opinione «giusta», non l’opinione maggioritaria. La tecnocrazia dei giudici si sostituisce alla democrazia: o, se si preferisce, quando si tratta di «diritti» degli omosessuali la democrazia è sospesa. È una deriva totalitaria, che purtroppo non è all’opera solo nello Utah.