Manovra in corso: statalismo, mancette e i soliti privilegi
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È in arrivo un documento programmatico di finanza pubblica all'insegna dell'austerity, perché l'Europa "ci osserva", anzi detta l'agenda al governo. Centralismo e sacrifici draconiani per molti ma non per tutti. E a pagare sarà soprattutto il ceto medio.

Il governo si appresta a presentare una manovra di bilancio che già dalle prime indiscrezioni appare come una consacrazione dell’austerità: il messaggio che trapela è che il rigore dei conti deve prevalere su ogni altra priorità, perché l’Europa “ci osserva” — ma in realtà è l’Europa che detta l’agenda, mentre il governo abdica alla propria sovranità e rinuncia a promuovere vera crescita, lasciando il ceto medio schiacciato tra tasse, tagli e stagnazione.
Secondo quanto circola ormai da settimane, il documento programmatico di finanza pubblica fisserebbe come obiettivo un ritorno del deficit/Pil verso il 3% entro il 2027, partendo da una soglia che oggi si colloca intorno al 4,5%. Questo percorso, presentato come necessario per rassicurare i mercati e la Commissione europea, implica per forza di cose sacrifici draconiani sulla spesa pubblica: ministeri, Regioni, sanità, istruzione e investimenti rischiano di essere decurtati in modo significativo. Il governo, da questo punto di vista, sembra voler replicare la logica delle “manovre delle illusioni” del passato, in cui qualche piccolo bonus viene sparso per dare una parvenza di equità, ma l’ossatura resta una fotografia del declino.
Le prime conferme di tale impostazione riguardano misure tampone come un “bonus casa” per le ristrutturazioni, ridotto però al 50%, e la conferma delle protezioni per categorie privilegiate come balneari e tassisti, senza alcuna intenzione — almeno per adesso — di mettere in asta le concessioni demaniali o di eliminare i privilegi consolidati nel settore dei trasporti locali. Nessun annuncio concreto su liberalizzazioni, nessuna sterzata verso un’economia più aperta: è il trionfo dello statalismo immobile, che non produce visioni ma risponde solo a logiche di potere e consenso immediato.
Le conseguenze per il ceto medio sono già intuibili: con la fine dell’effetto-rilancio del Pnrr — i cui fondi, ricordiamo, erano stati usati anche come tampone anticiclico — viene meno quel margine supplementare che aveva leggermente frenato la perdita di reddito reale. Se fino ad ora il Pnrr ha consentito qualche investimento pubblico indotto, nei prossimi slanci non ci sarà più quell’effetto “moltiplicatore”, e il governo non pare intenzionato a sopperire con proprie risorse. A quel punto, il ceto medio — già stretto tra prezzi alti, costi energetici e stagnazione salariale — si troverà ad affrontare una doppia stretta: da un lato la riduzione dei servizi pubblici essenziali, dall’altro la pressione fiscale che resterà elevata. Si paventano tagli netti alla spesa corrente: circola l’ipotesi di oltre 13–14 miliardi di riduzioni nel triennio su ministeri, enti locali e altre voci, e di un definanziamento massiccio del servizio sanitario nazionale. Non è una manovra per rilanciare l’Italia: è una manovra per sopravvivere all’Europa, e in questo sacrificio chi ci rimette veramente sono le famiglie, i lavoratori, il tessuto produttivo.
È paradossale che mentre si impone l’austerità generalizzata, il governo continui a proteggere alcune categorie come i balneari, che continueranno a usufruire di concessioni senza gara, e i tassisti, che non saranno scalfiti nel loro monopolio locale. Non si intravede nessuna volontà di promuovere concorrenza, innovazione, deregolamentazione: al contrario, si accentua la centralizzazione statale, si rinforzano rendite locali e clientelismi. È un disegno che nulla ha di liberale, ma è piuttosto un ritorno al dirigismo elettorale: non si tratta di governare con una visione, ma di distribuire favori in vista del consenso. La logica è “salviamo chi conta”, mentre si penalizza chi non ha peso politico.
Il vero paradosso è che questa manovra sarà presentata come la risposta responsabile alle “raccomandazioni” europee, come se l’Italia non avesse bisogno di un proprio progetto di sviluppo, ma solo di “rispettare le regole”. In realtà, le regole — e chi le interpreta — sono il frutto di compromessi politici: il timore reverenziale verso Bruxelles diventa autoreferenziale, funge da scusa per giustificare ogni rinuncia. Il governo non solo abdica al ruolo di protagonista del proprio destino, ma accetta che il proprio spazio decisionale diventi subordinato a vincoli esterni. Intendiamoci: tenere sotto controllo il debito è importante, ma non può essere il fine assoluto. Se gli altri Paesi europei si concedono margini di stimolo agli investimenti, sostegno all’innovazione, politiche industriali per crescere, perché l’Italia deve accontentarsi del rigore sterile?
Chi osserva con occhio critico segnala che lo schema a base europea – riduzione del deficit, rigore sulla spesa, politiche sociali limitate — non produce alcuna garanzia che il debito si riduca nel lungo termine se non si stimola la crescita: senza innovazione e produttività, si resta intrappolati in una gabbia fiscale. È il rischio di blocco strutturale del Paese. L’Italia ha bisogno di uno shock di visione e modernizzazione, non di una mancetta diluita. In definitiva, questa manovra, nelle sue prime macchiette già visibili, rivela un disegno politico senza ambizione: l’Italia non si merita governi che trattano la crescita come un optional, che proteggono chi ha privilegi, che giustificano il sacrificio diffuso con la scusa europea.
Lo scenario più probabile sembra quello di un’ulteriore compressione del ceto medio, un indebolimento ulteriore delle forze produttive periferiche, e una politica economica impoverita, incapace di guardare al domani. Se non cambierà radicalmente il paradigma, l’Italia continuerà a declinare dietro il paravento del rigore e in nome di una Europa che si rivelerà sempre più “matrigna” solo nella narrativa, ma legittimata ogni giorno dal silenzio dei governanti.
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