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EDITORIALE

Legge sul fine vita, le scomuniche non servono

Mentre alla Camera si attende la decisione sul rinvio del ddl sulle Dat, crescono i dubbi nel fronte pro-life. Significativo anche il silenzio di alcuni vescovi. E c'è chi reagisce in modo scomposto.  

Editoriali 27_04_2011
fine vita

Oggi si saprà se per la discussione sulla legge del fine vita
alla Camera sarà confermato l'ennesimo rinvio, o se andrà a buon fine l'annunciato tentativo dell'Udc di riportare l'argomento in testa all'agenda dei lavori. In ogni caso non si può non notare come il tentativo di arrivare presto e bene al varo della legge si faccia sempre più a rischio.

Ne sono testimonianza i crescenti dubbi anche in seno al variegato movimento pro life, e il nervosismo che trapela dal fronte dei più convinti sostenitori della legge. Nervosismo dimostrato, ad esempio, dall'ultimo numero di "E' vita", l'inserto di Avvenire dedicato ai temi della vita, il cui titolo di apertura, giovedì scorso, recitava così: "Senza questa legge, arriva l'eutanasia". E in seconda pagina l'editorialista Domenico Delle Foglie si scagliava contro dei presunti "supercattolici" che vorrebbero leggi perfette e, seguendo questo idealismo irrazionale, fanno il gioco del fronte eutanasico.

Ora, se c'è una cosa che noi abbiamo sempre sostenuto è che ci sono ottime ragioni sia per sostenere la necessità di una legge (ma solo a certe condizioni), sia per ritenerla inutile o addirittura dannosa. Soprattutto siamo convinti che, legge o non legge, il problema vero che ci sta portando all'introduzione dell'eutanasia è culturale e riguarda tutta la società. Lanciare scomuniche reciproche o accusare di volere l'eutanasia chi non si allinea al pensiero ufficiale, è una grave scorrettezza e un atto di disonestà intellettuale, soprattutto da parte di chi - scrivendo sull'organo ufficiale della Chiesa italiana - pensa di mantenere serrate le fila con minacce ed etichette di diserzione. Pur in un dibattito serrato non dovrebbe mai venire meno la consapevolezza - e il riconoscimento - che siamo tutti dalla parte della vita

Detto questo, ad Avvenire non dovrebbe sfuggire il fatto che i dubbi sulla legge non provengono soltanto da frange di "intransigenti", ma anche da autorevoli membri dell'episcopato, peraltro tra i più esperti di Dottrina sociale e di Bioetica. A parlare finora è stato soprattutto monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste ed ex segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che in un'intervista alla Bussola Quotidiana e in incontri pubblici, ha detto di considerare la legge "un rischio inevitabile" a questo punto, ma ha avvertito che nel progetto in discussione non è tollerabile qualsiasi emendamento che renda più ambigua la legge, al punto che in questo caso il governo dovrebbe ritirare il progetto e comunque i cattolici non potrebbero votarla. Ad ogni modo, pur favorevole a questa legge, Crepaldi ha detto che bisogna prendere molto bene in considerazione le ragioni di chi vi si oppone, perché esse sono ben fondate e valgono anche se la legge andrà a buon fine.

Ma a volte, oltre alle parole valgono anche i silenzi, e da questo punto di vista è significativo che sull'argomento tacciano due vescovi di primo piano, esperti di bioetica e Dottrina sociale, come il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, e monsignor Luigi Negri, vescovo di san Marino-Montefeltro. Non possiamo certo interpretare il loro silenzio, ma non c'è dubbio che sia significativo. Accanto a loro non possiamo non citare il padre domenicano Giorgio Carbone, altra autorità in fatto di bioetica, che ha espresso pubblicamente le sue perplessità su diversi aspetti del progetto di legge.

Due sono comunque, a nostro avviso, i punti maggiormente critici di questo iter legislativo che fanno sorgere perplessità crescenti. Anzitutto, se è vero che dei giudici hanno già interpretato in chiave eutanasica l'attuale legislazione che pure è chiaramente contraria, a maggior ragione altri giudici potranno inserirsi tra le maglie di una legge molto, forse troppo, articolata. Se è vero che alimentazione e idratazione sono chiaramente escluse come strumenti terapeutici, altri articoli però - letti da qualche giudice interessato - potrebbero essere facilmente interpretati come deroga al principio. Non si può dare torto a chi sostiene che - per evitare un altro caso Eluana - sarebbe bastato un articolo unico in cui ribadire il principio per cui alimentazione e idratazione sono sostegni vitali in qualunque modo essi siano somministrati. Se il problema sono gli Azzeccagarbugli di cui è pieno il mondo della giustizia, meno parole si scrivono meglio è.

La seconda questione riguarda l'opportunità di intervenire per legge nel rapporto tra medico e paziente, cercando di codificare ciò che realisticamente appare ben poco codificabile. E' più che un rischio l'abonorme estensione del ruolo dei giudici anche in campi delicatissimi, come la recente sentenza della Cassazione sull'accanimento terapeutico dimostra.
Analizzeremo nei prossimi giorni più a fondo, come del resto abbiamo già iniziato a fare, le varie questioni legate alla legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Ma già questo basta per richiamare la necessità di un confronto serio e approfondito sui temi implicati, senza altre insopportabili scomuniche via stampa.