Le rivalità tra i ministri indeboliscono il governo Meloni
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Tajani contro Salvini e contro Giorgetti. Approfittando della vetrina del Meeting di Rimini, vengono messe in mostra le spaccature fra Lega e Forza Italia. Ma anche fra la stessa premier Meloni e Salvini non corre buon sangue.

Il governo Meloni si mostra sempre più lacerato al suo interno, e le crepe, che da mesi serpeggiano dietro la facciata di un esecutivo compatto, si sono fatte più visibili proprio nei giorni di grande esposizione pubblica estiva, quando i riflettori si accendono e ogni gesto o dichiarazione finisce amplificato.
Le divisioni, che covano da tempo tra ministri e tra alleati di maggioranza, sono esplose con forza al Meeting di Rimini, che ha finito col trasformarsi nel teatro simbolico di un confronto tutto interno al centrodestra di governo. A partire dallo scontro, sempre più evidente, tra Antonio Tajani e Matteo Salvini, ma anche tra lo stesso Tajani e Giancarlo Giorgetti. Il primo, ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, ha colto l’occasione per marcare con fermezza il perimetro delle sue competenze, ricordando che la politica estera deve restare prerogativa del presidente del Consiglio e del titolare della Farnesina, un messaggio chiaro indirizzato a Matteo Salvini, colpevole, secondo molti, di sovrapporsi in modo scomposto nelle relazioni internazionali con esternazioni che sfidano la linea ufficiale dell’Italia.
Tajani, dunque, si smarca con decisione, proprio mentre sul piano economico il clima tra lui e Giorgetti si fa sempre più teso. Il ministro dell’Economia non nasconde più il suo malessere per le continue fughe in avanti dei colleghi di governo, con promesse e dichiarazioni che compromettono la difficile tenuta dei conti pubblici. Il vicepremier forzista, dal canto suo, pare sempre più insofferente rispetto all’impostazione rigorista di via XX Settembre, segnalando divergenze profonde non solo sugli strumenti da usare per la prossima manovra, ma anche sulla visione complessiva del ruolo dello Stato nell’economia. Una frattura che rischia di diventare insanabile con l’approssimarsi delle scelte più delicate, tra tagli, coperture incerte e promesse elettorali da onorare. Da questo punto di vista i nodi verranno al pettine con la prossima manovra di bilancio autunnale.
Ma è sul fronte politico e mediatico che la temperatura si alza davvero, con la rivalità, mai sopita, tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini pronta a riemergere in tutta la sua intensità. Se ieri è toccato alla premier calcare il palco di Rimini con un discorso teso a riaffermare la centralità del suo governo e a dare un messaggio di coesione, oggi sarà proprio Salvini a chiudere il calendario degli interventi degli esponenti dell’esecutivo, ultimo tra i ministri a parlare, in una posizione che non può non sembrare una sfida. A Meloni sarebbe stato assicurato che il leader della Lega si limiterà a parlare di infrastrutture, senza sconfinare su temi e terreni delicati come la guerra in Ucraina, ma la storia recente insegna che il vicepremier leghista non è nuovo a sorprese, e le sue recenti bordate contro Emmanuel Macron e l’idea francese di un esercito europeo sono lì a dimostrare come Salvini non intenda allinearsi docilmente alla postura atlantista del governo. Ogni sua uscita rischia di spostare l’asse della comunicazione su toni nazionalisti, mettendo in difficoltà non solo Meloni ma anche Tajani, che si trova a dover continuamente correggere la rotta per rassicurare gli alleati occidentali.
Come se non bastasse, la defezione del ministro della Salute Orazio Schillaci, che ha scelto di non partecipare agli eventi ufficiali come quello di Rimini, ha aggiunto un ulteriore elemento di tensione. La sua assenza viene letta come la prova di un certo imbarazzo per la recente decisione del governo di revocare le nomine del comitato tecnico sui vaccini, una scelta che ha suscitato polemiche e messo in discussione la credibilità scientifica del dicastero. Schillaci, tecnico prestato alla politica, sembra sempre più isolato, prigioniero di un equilibrio difficile tra la prudenza istituzionale e le spinte ideologiche di alcune componenti della maggioranza.
A tutto ciò si sommano le critiche sempre più esplicite rivolte alla ministra Eugenia Roccella, accusata di non aver dato un impulso sufficiente alle politiche per la natalità, tema cruciale nell’agenda della destra ma che finora è rimasto schiacciato tra slogan e mancanza di misure concrete. Le associazioni familiari e alcune voci del mondo cattolico hanno manifestato delusione per l’assenza di veri incentivi e per un piano complessivo che sembra più ispirato alla propaganda che a una strategia di lungo periodo.
E mentre Meloni cerca di tenere insieme le diverse anime del suo esecutivo, anche le tensioni tra il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, aprono un altro fronte: la polemica sul trattamento riservato a CasaPound, che secondo alcune dichiarazioni dello stesso Giuli meriterebbe una considerazione diversa da quella riservata ai centri sociali come il Leoncavallo, ha fatto infuriare il titolare del Viminale, che teme di legittimare simbolicamente realtà politiche estremiste. Lo scontro, che all’apparenza può sembrare marginale, ha in realtà implicazioni profonde sul piano dell’identità politica della maggioranza e sulla gestione dell’ordine pubblico, tanto più in un momento in cui l’opinione pubblica mostra crescente attenzione verso il tema della radicalizzazione.
A questo si aggiungono i contrasti più sotterranei, ma non meno significativi, tra altri esponenti di primo piano: il titolare della Difesa, Guido Crosetto e il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano, ad esempio, si tollerano a fatica, e i malumori tra il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi e quello della giustizia, Carlo Nordio dopo il caso-Almasri continuano a circolare nei corridoi dei ministeri. Insomma, il governo che si era presentato come il più coeso della storia recente si ritrova oggi attraversato da linee di frattura sempre più visibili, dove le ambizioni personali, le rivalità politiche e le differenze di visione stanno minando giorno dopo giorno quell’unità che la presidente del Consiglio tenta disperatamente di mantenere. E’ vero che il centrosinistra ora come ora non ha alcuna possibilità di rivincita, perché prigioniero di contraddizioni, divisioni profonde e assenza di leadership, ma il centrodestra commetterebbe un grave errore se si cullasse sugli allori. Volendo riesumare un antico proverbio si potrebbe dire che se Atene piange Sparta non ride, nel senso che farebbe bene a non ridere troppo.