La crisi demografica e la scuola, manca uno sguardo
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Non si esce dall’inverno demografico inoltrandosi sempre di più nella dimensione di una società relativista, convinta che l’uomo possa salvarsi senza Dio. Né si può pensare di risollevare le sorti della scuola con l'immissione di immigrati.
C’è un fenomeno di cui, soprattutto nelle scuole superiori, si parla ancora un po’ sottovoce, quasi fosse un pericolo solo all’orizzonte, ma che nelle “stanze dei bottoni” sta suscitando una crescente e giustificata preoccupazione: l’inverno demografico.
Di questa emergenza, che coinvolge anche il sistema di Istruzione, se ne parla infatti nel recente documento Anticipare per governare il cambiamento. Il sistema di istruzione e formazione di fronte alle sfide del cambiamento generazionale, elaborato in occasione dell’audizione dell’Istituto nazionale Documentazione Innovazione Ricerca educativa (Indire) presso la commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali della transizione demografica.
Il drammatico calo delle nascite, che attanaglia in particolare i cosiddetti Paesi “evoluti” nel mondo, in Italia è da vero allarme rosso e ha già cominciato a svuotare progressivamente le classi e a provocare la chiusura di scuole. Le prime avvisaglie ovviamente si erano registrate nelle aree meno popolate (come ad esempio le comunità montane), ma ora –come uno tsunami- l’onda di vuoto ha iniziato a travolgere tutto il territorio, con tutto quello che ne consegue a livello di perdita di posti di lavoro, di importanti punti di aggregazione sociale e di formazione culturale.
Negli ultimi dieci anni, nonostante l’apporto massiccio dell’altra ondata, quella immigratoria, si è registrata la perdita di quasi mezzo milione di iscritti dalla scuola dell’infanzia al secondo ciclo scolastico; nell’anno scolastico 2024-2025 le 362.115 classi di scuola statale in Italia hanno accolto 7.073.587 studenti e nel 2025-2026 si scenderà sotto la soglia dei 7 milioni. L’Istat prevede poi un ulteriore calo di circa un milione di studenti da qui al 2034. Se consideriamo che solo trent’anni fa (a.s. 1995/96) la popolazione scolastica complessiva contava 8.376.000 studenti e nel 1979/80 ammontava a circa 10 milioni, ci rendiamo meglio conto dell’abisso in cui stiamo precipitando.
Nell’ultimo decennio ha già chiuso quasi il dieci per cento degli istituti scolastici principali in Italia, e altri ancora, ovviamente, sono destinati a chiudere. Si tratta di numeri impressionanti, che fotografano un’emergenza di cui per troppo tempo non si è voluto parlare, e che ora rischia di essere affrontata in modo astratto.
Un esempio illuminante di approccio astratto, per esempio, ce lo offre proprio il Presidente di Indire, convinto che si possa cercare di trasformare la crisi in opportunità, usando nel modo giusto tecnologia e innovazione, sfruttando al meglio le risorse destinate agli studenti, ridisegnando il sistema anche in modo da sostenere chi vuole fare figli.
In un’intervista rilasciata al settimanale “Tempi”, afferma che «viviamo in tempi complessi, ma come ogni generazione che ci ha preceduto dobbiamo essere attrezzati per governare il cambiamento e nel cambiamento (...) ricostruendo tutti i sistemi per metterli in grado di affrontare le sfide di questo cambiamento in atto di cui uno degli aspetti principali è quello della crisi demografica». Fra le varie soluzioni proposte, spicca per aleatorietà (e pericolosità) l’idea di compensare il calo numerico attraverso la capacità di attrarre e integrare nuovi cittadini, con «gli immigrati che non devono essere solo quelli arrivati sui barconi, ma anche giovani predisposti a integrarsi in un contesto territoriale e valoriale nuovo, e a fare la loro parte da cittadini a pieno titolo”».
Questo è solo uno dei numerosi temi della road map di governance del cambiamento proposta da Indire, che prevede, fra le altre cose, di ridisegnare l’intero sistema di istruzione (scuola come “sistema policentrico costituito da spazi multifunzionali e intergenerazionali, connessi digitalmente, integrati in una governance comune, aperti sia a servizi pubblici sia ad attività private, penso ad esempio a quelle realizzate dalle fondazioni e dalle cooperative di comunità in una prospettiva di sviluppo socio-economico e di tutela del patrimonio storico-culturale e quindi identitario di queste aree») come pure la figura professionale dell’insegnante («l’insegnante del 2050 sarà meno trasmettitore di contenuti e sempre più attivatore di comunità educanti, nodo critico di reti locali e globali in grado di leggere i segnali del cambiamento e di accompagnare le persone giovani e adulte, e quindi le comunità, nella sfida delle transizioni»)...
Quello che i nostri governanti e illuminati pensatori mostrano di non comprendere, con le loro complesse e fantasiose argomentazioni, sono proprio i fondamenti della crisi, e per questo motivo tutte le soluzioni che propongono appaiono astratte e pretenziose. Le ragioni del terribile crollo demografico, presentate con grande chiarezza in un graffiante articolo di Tommaso Scandroglio, non attengono infatti a semplici contingenze di natura organizzativa, politica, sociale ed economica, ma affondano le loro radici nella dimensione più profonda dell’esistenza umana. E proprio per questo la crisi è gravissima, essendo “il frutto di una generazione senza natura, senza gli altri, senza storia e in definitiva senza Dio”.
Non si esce dall’inverno demografico inoltrandosi sempre di più nella dimensione di una società relativista, tecnocratica, materialista ed edonista, convinta che l’uomo possa salvarsi da sé e vivere felicemente senza Dio. Né si può pensare, analogamente, di risollevare le sorti della scuola italiana. La fallita integrazione dei giovani immigrati da parte di altri paesi europei, (quegli stessi giovani “predisposti a integrarsi in un contesto territoriale e valoriale nuovo, e a fare la loro parte da cittadini a pieno titolo”) che sta sfociando anche da noi in sempre più frequenti manifestazioni di violenza e insofferenza da parte loro, mostra con grande evidenza che la vera integrazione può realizzarsi solo là dove una società è in grado di proporre valori forti e modelli di vita pieni di senso, così come è accaduto nei secoli delle invasioni da parte di popoli barbari, poi convertitesi al cristianesimo.
Solo una nuova primavera dei valori cristiani, che hanno sostenuto per secoli le nostre famiglie e il loro desiderio di trasmettere la vita, che hanno alimentato la speranza e la certezza di un senso dell’esistenza per cui vale davvero la pena spendersi, potrà invertire questo gelido inverno demografico, che altro non è se non una terrificante tendenza all’autodistruzione. Non c’è altra strada, è questo l’unico “approccio sistemico” possibile.

