Islamismo e wokismo, cortocircuito di un'alleanza improbabile
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Gli attivisti gay sostengono la causa palestinese. Ma gli islamici che perorano la causa di Gaza, non li vogliono come alleati, come si è visto anche dallo scontro fra organizzatori della Flotilla.

La ”Giornata internazionale del coming out”, celebrata l’11 ottobre dalla comunità LGBT, dà l’occasione per analizzare un fenomeno a cui abbiamo assistito spesso negli ultimi due anni di manifestazioni di piazza. Il corteo romano del Coming Out day 2025, organizzato nel quartiere popolare di Torpignattara, oltre a rivendicare i diritti delle persone LGBT ha fornito il suo endorsement alla causa palestinese.
«Noi che abbiamo subito nei secoli un genocidio ai nostri danni - ha detto un attivista durante la manifestazione - oggi sappiamo riconoscere il genocidio ai danni del popolo palestinese». Assieme alle bandiere arcobaleno, alle drag queen, ai minori truccati con i colori rainbow, alla banda musicale, hanno dunque sfilato per le vie del quartiere diversi drappi palestinesi. In effetti negli ultimi due anni le manifestazioni a favore della popolazione di Gaza, genericamente definite dalla stampa pro Pal, sono state fin da subito espressione di sigle, gruppi e movimenti molto diversi tra loro; quelli LGBT hanno aderito alla causa sotto la denominazione collettiva Queers for Palestine. A fianco degli attivisti italiani, in due anni di proteste a Roma hanno sfilato le diverse anime delle comunità palestinesi, notoriamente frammentate al proprio interno così come in patria, i cittadini dei Paesi musulmani che hanno supportato Gaza dall’inizio, le associazioni islamiche, le moschee e i centri culturali stranieri che sposano la causa palestinese.
Tutte queste realtà sono però espressione di un mondo islamico socialmente e culturalmente assai variegato, non necessariamente sensibile alle istanze woke provenienti dall’Occidente, rigettate per la maggior parte come haram, insensate o quantomeno ritenute tabù (del resto lo Stato Ebraico si vanta di essere l’unico campione dei diritti LGBT in medioriente, e la propaganda israeliana ha buon gioco nel dipingere i palestinesi come omofobi, oltre che terroristi).
È capitato che le donne “liberate” dei Queers for Palestine marciassero alle manifestazioni pro Pal a fianco delle donne col burqa nero integrale tipico del conservatorismo religioso islamico; in alcuni cortei, per rendere il contrasto meno stridente e prevenire disagio e imbarazzi, i gruppi sono stati distanziati tra loro e fatti partire in momenti diversi.
La resistenza della non piccola parte conservatrice dell’islam all’indottrinamento culturale di matrice woke è emersa con forza durante la recente spedizione umanitaria della Global Sumud Flotilla. Il coordinatore tunisino della Flotilla, Khaled Boujemâa, ha abbandonato l’impresa appena dopo la partenza dal porto di Sidi Bou Saïd in segno di protesta: non ha digerito la presenza a bordo del connazionale Saif Ayadi e di altri attivisti Lgbt, che a suo dire gli era stata “nascosta” dagli organizzatori. Rivolgendosi agli stessi in un video in diretta dal porto di Biserta, dove la sua imbarcazione si era fermata per uno scalo tecnico, Boujemâa ha reso nota la sua decisione, sottolineando che la causa di Gaza non c’entra con le istanze Lgbt e dichiarando la sua «estraneità a questa persona che avete portato».
Lo ha immediatamente seguito Mariem Meftah, altra attivista della Flotilla, che ha dichiarato: «L’orientamento sessuale è una questione privata, ma essere attivista queer va a intaccare i nostri valori. Mi rifiuto di mandare mio figlio in una scuola che proponga il cambio di sesso e non voglio a bordo gente che la pensa così». Nella querelle, diventata subito virale sui social, è intervenuto un noto presentatore televisivo tunisino, Samir Elwafi, che a sua volta ha dichiarato: «La Palestina è prima di tutto una causa islamica, e in quanto tale non la si può dissociare dalla sua dimensione spirituale e religiosa. Perché dunque inserire negli equipaggi della Flotilla attivisti che servono altre agende, che nulla ha a che vedere con Gaza? Perché portare divisione tra le persone, che la causa dovrebbe invece unire?».
L’episodio, esemplare del cortocircuito esistente tra ideologia woke e fede islamica, sarebbe quasi boccaccesco se non avesse un risvolto tragico. Lo Stato tunisino, che ha accolto le imbarcazioni della Flotilla provenienti dall’Europa permettendo loro di fare scalo per quasi quindici giorni in tre porti diversi, facendole scortare dalle forze dell’ordine ed offrendo rifornimento gratuito di carburante, ha dimostrato attenzione nei confronti dei diritti umani violati dei gazawi. Tuttavia, Tunisi non riserva altrettanta attenzione verso i propri connazionali omosessuali. Sotto il presidente Saied si è intensificata la persecuzione nei loro confronti con l’applicazione dell'articolo 230 del Codice penale, una legge coloniale del 1913 che criminalizza i rapporti omosessuali e li punisce fino a tre anni di carcere.
Lo stesso Saif Ayadi, che tanto scompiglio ha portato sulla Flotilla, è stato oggetto in patria di violenze e discriminazioni. Secondo stime recenti dell’associazione Damj, di cui Ayadi è uno dei responsabili, nell’ultimo anno si è registrato un aumento dei procedimenti giudiziari per atti sessuali tra persone dello stesso sesso, contrari alla “buona morale” e alla “decenza pubblica”. In totale, nell’ultimo anno nel Paese sono stati intrapresi almeno 41 processi contro persone omosessuali e transgender, e sono state perpetrate violenze e vere e proprie torture ai loro danni.
La Tunisia non è l'unico Paese islamico in cui essere omosessuali significa rischiare la prigione, se non addirittura la vita. In Pakistan, dove le persone omosessuali soffrono una grave persecuzione, lo scorso 21 settembre tre donne transgender sono state uccise a colpi di arma da fuoco da alcuni soggetti non identificati che si sono in seguito dileguati.
Shabbir Shafqat, presidente del partito cristiano National Christian Party, ha denunciato pubblicamente le uccisioni, chiedendo giustizia al governo pakistano «che ha l’obbligo morale e legale di proteggere i suoi cittadini, compresi i più vulnerabili», ha dichiarato. «Siamo solidali con i transgender pakistani e continueremo a combattere per i loro diritti finchê non saranno protetti e rispettati». Non sorprende che sia il mondo cristiano a venire incontro alle terribili condizioni di vita delle minoranze in Pakistan, inclusa la minoranza cristiana stessa.