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un esperimento discutibile

Intervista col Santo, i rischi dell'IA che ci avvicina a Matrix

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L'università di Padova ha ricreato un avatar per far parlare San Carlo Acutis, utilizando gli scritti che lo riguardano. Operazione anche corretta dal punto di vista dei contenuti, ma che svela il grande pericolo dell'intelligenza artificiale: delegare il pensiero e consegnarci l'illusione di parlare coi morti. 

Ecclesia 24_12_2025

Il ricco epulone doveva morire ai nostri giorni. Se fosse successo, avrebbe chiesto all’Università di Padova di poter parlare lui o di far parlare Lazzaro con chi non era ancora morto, scavalcando così il duro divieto di Abramo, che gli negò ogni forma di comunicazione con quelli che erano ancora nell’Aldiquà. Infatti, grazie all’Intelligenza Artificiale (IA), alcuni ricercatori dell’università patavina sono riusciti a far parlare un defunto. Ma non un defunto qualsiasi, bensì San Carlo Acutis.

All’interno del progetto di ricerca chiamato Memoria digitale e narrazione del sacro: il caso Carlo Acutis che vorrebbe ricreare avatar di defunti per poter interloquire con loro, i ricercatori hanno realizzato un chatbot – un software che simula la conversazione umana – chiamato Io sono Carlo. In breve hanno addestrato questo programma di IA facendogli leggere quattro volumi di Antonia Salzano, madre di Carlo, e un bel po’ di sana dottrina cattolica. Il risultato è stata una intervista al trapassato Carlo pubblicata sul Corriere della Sera.

Le domande vertevano sull’Aldilà e i suoi ospiti, su come era Dio, se c’era l’Inferno et similia. Il Carlo robotizzato ha risposto in modo diligente, ricordando la dottrina di sempre su queste tematiche infarcendo le risposte con alcuni passaggi autobiografici. Il tutto in uno stile giovane e fresco, ben adatto ad un 15enne che tale, a quanto pare, dovrebbe rimanere per sempre anche in Cielo.

A scanso di equivoci: il Carlo che rispondeva alle domande non è il Carlo che ora è in Paradiso, bensì è un clone digitalizzato di quel Carlo, un pappagallo che ripete con un certo ordine logico ciò che i suoi sviluppatori gli hanno dato in pasto da leggere.

Detto ciò interroghiamoci su questo esperimento mediatico, dove i medium sono i ricercatori e lo spirito evocato appare grazie all’IA. La Chiesa ammonisce dal parlare con i defunti. Ma in questo caso tutti dovrebbero essere ben coscienti che quel Carlo finito sul Corsera non è il defunto da poco canonizzato, ma una copia. Abbiamo usato il condizionale perché in questa simulazione si nasconde il vero pericolo per le anime delle persone.

Infatti leggendo l’intervista si ha proprio l’impressione che sia Carlo Acutis in spirito e anima, ma non in carne ed ossa, a rispondere. Le risposte rispecchiano così fedelmente l’immagine che noi tutti ci siamo fatti di quell’adolescente, che non appaiono verosimili, bensì vere. E qui sta l’inganno: la coscienza che si tratti solo di un robot addestrato a rispondere a comando e in modo genuino viene scalzata dalla suggestiva percezione che l’interrogato sia realmente l’Acutis. L’autenticità del modo soppianta l’autenticità della persona. Il mezzo si antropomorfizza.

Se poi pensiamo che la ricerca vorrebbe espandere l’esperimento ad altri de cuius anche non noti, il rischio aumenta in modo esponenziale. Se infatti la mamma che ha perso un figlio farebbe di tutto per poter parlare ancora con lui, l’IA offrirebbe a lei uno straordinario succedaneo per lenire le sue sofferenze. Ma, ecco il punto, si tratterebbe di una illusione.

I want to believe it, direbbero gli anglofoni, ossia voglio crederci anche se so che è tutta una finzione. Meglio una finzione ben apparecchiata, che la cruda e spietata realtà. La realtà virtuale è migliore di quella attuale. È il vecchio tema di Matrix: pillolina blu o rossa. Vivere in un’appagante falsità o scorticarsi il cuore rimanendo incastrati in una realtà spietata?

Ecco allora che l’Intelligenza Artificiale ha creato per davvero un paradiso altrettanto artificiale. Non esistono solo più le droghe per fuggire dalla realtà, ma anche gli algoritmi che rimpastano scritti, video e audio del passato per generare un compiacente presente, un presente che può parlarci anche al di là della morte.

Ed eccoci ad una seconda illusione: l’IA diventa uno strumento per eternarci, per sfuggire alla decomposizione della memoria, per spiritualizzarci rendendoci sempre vivi e presenti grazie ad un click sulla tastiera. Per i nostri posteri saremo sempre raggiungibili infrangendo le barriere del tempo e anche quelle della sensatezza.

Ma vi è una terza illusione, l’illusione più grande, che è quella di credere che l’IA possa tutto. A ChatGPT si chiedono consigli d’amore, su come uscire dalla depressione, spiegazioni sul senso della vita, notizie attendibili sull’Aldilà posto che esista. Se con la rivoluzione industriale abbiamo delegato alle macchine la fatica, con la rivoluzione digitale abbiamo inizialmente delegato alla tecnologia la ricerca di informazioni, ora con l’IA abbiamo delegato il pensiero. Ossia il giudizio, il ragionamento.

Dovrebbe essere evidente che un Carlo Acutis che ci risponde sullo schermo di un pc è solo teatro, seppur teatro 2.0. Ma il fatto che si vuole credere alla finzione è segno che abbiamo abdicato alla ragione. Ormai funzione sempre più appaltata agli algoritmi.

Una volta ci si affidava ai santi, certi che ci ascoltavano anche se non ci parlavano. Oggi ci si affida all’IA che fa le veci dei santi, santi parlanti, pensando poi che faccia miracoli. Ma miracoli non sono. Assomigliano più a miraggi, ad allucinazioni.