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L'INTERVISTA

Il vescovo di Donetsk: «Ucraini non ancora pronti a perdonare»

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«Quello del perdono oggi è un tema molto delicato su cui gli ucraini non sono ancora pronti. Con gli occhi cristiani, si può perdonare solo quando qualcuno viene a chiedere perdono. Altrimenti il perdono è insignificante. Dobbiamo ancora vedere la presa di coscienza del popolo russo che riconosce di aver sbagliato». La Bussola intervista il vescovo di Donetsk, Monsignor Maksym Ryabukha. 

Attualità 18_09_2023

Monsignor Maksym Ryabukha è un vescovo un po' speciale. L'esarcato arcivescovile di Donetsk di cui è ausiliare, infatti, comprende non pochi territori ora occupati dai russi. Da un anno il salesiano 42enne si ritrova ad esercitare il suo ministero episcopale nella zona più calda del conflitto e a toccare con mano il dramma di sfollati, mutilati, vedove, orfani e altri familiari di vittime. 

Monsignor Ryabukha ha accettato di parlare della sua esperienza alla Nuova Bussola Quotidiana che lo ha intervistato poco prima del ritorno in Ucraina al termine del Sinodo dei vescovi della Chiesa greco-cattolica ucraina tenutosi a Roma dal 3 al 13 settembre.

Eccellenza, voi vescovi greco-cattolici ucraini avete avuto modo di confrontarvi con il Papa. Può dirci le sue impressioni sull'incontro?
Il nostro incontro con il Papa è stato molto bello. Direi soprattutto fraterno e schietto, ma anche molto incoraggiante perché abbiamo visto un uomo che davvero ci stima, ci accompagna con la preghiera e che ci è vicino con la voglia di aiutare in tutti i modi possibili e da lui percorribili. A tutti noi ha augurato di farci coraggio ricordando che Cristo è vicino a noi.

La conversazione è stata franca. È stata l'occasione per chiarire le incomprensioni scaturite dal discorso di Francesco a giovani cattolici russi? 
Purtroppo oggi le parole e i gesti vengono fraintesi. È interessante notare che a proposito di quel discorso nessuno ha parlato dei passaggi del Papa sul Vangelo ma ci si è soffermati solo sulla frase su Pietro I e Caterina II. 

Eppure anche nel comunicato stampa dell'Ugcc si è accennato al fatto che voi vescovi ucraini avete riferito al Papa "una certa delusione del popolo ucraino"...
Ci sono due punti di vista della realtà di cui parliamo: c'è una realtà di offesa per mancanza di affetto, dove ogni parola, ogni paragone ha un peso. In questo punto di vista la parola "scusa" non guarisce subito la parola d'offesa che senti. C’è, poi, un altro punto di vista ed è quello che ho sperimentato a Roma. Quando siamo stati dal Papa, il clima di fraternità e la sua vicinanza erano davvero molto forti. Lui non aveva bisogno di ascoltare da noi della delusione del popolo ucraino a causa delle sue parole perché lo sapeva già. La questione è durata per giorni. Quando lo abbiamo incontrato, il Papa aveva molto chiaro cosa era successo. Ha portato con sé un'icona di Nostra Signora della Tenerezza che gli era stata donata in Argentina da Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk. Il Papa ci ha ricordato che di fronte a quell'immagine prega ogni sera per il popolo ucraino. Ecco, non preghi per coloro di cui non ti importa, per i quali non provi affetto. Il gesto supera tutte la parole possibili. Lui, poi, aveva già chiesto scusa e spiegato che non aveva alcuna intenzione di offendere qualcuno. Quando parliamo del Papa, è sicuro che prova un senso di affetto, fraternità e compassione per l’Ucraina.

A proposito di chiedere scusa: nella sua attività pastorale in una regione di  guerra come il Donetsk lei riesce a parlare del tema del perdono con i fedeli ucraini o è ancora troppo presto?
Quello del perdono oggi è un tema molto delicato. Un tema su cui gli ucraini non sono ancora pronti. Anzi, direi un tema che addirittura ci irrita quando viene menzionato da qualcuno. Con gli occhi cristiani, si può perdonare solo quando qualcuno viene a chiedere perdono. Altrimenti il perdono è insignificante: non solo non porta ad una soluzione ma finisce per incoraggiare il dramma. Dobbiamo ancora vedere la presa di coscienza del popolo russo che riconosce di aver sbagliato. Non un semplice male, ma un errore gravissimo. Se non c’è questo, il concetto di perdono non ha terreno per esistere.

Come si svolge l'azione pastorale sul confine bellico, anche nei riguardi dei fedeli che vivono nei territori occupati?
Oltre al mio, ci sono altri due esarcati che vivono la guerra nel loro in territorio: quello di Odessa e quello di Kharkiv.  Ad oggi non c’è nessuna parrocchia con sacerdoti sui territori occupati. Una parte è andata via con molti parrocchiani quando sono arrivati i russi, altri sono stati cacciati verso i territori ucraini. Gli ultimi due sacerdoti rimasti sono stati incarcerati, a Berdyansk. In questa situazione i parroci cercano di compattare le persone, sia quelle che si trovano sotto l'occupazione, sia gli sfollati che cercano un rifugio. La gente ha un forte senso di comunità, di comunione, vuole sentirsi in contatto per non perdersi in questo mondo di dolore. Con alcuni parrocchiani che conoscevo prima e che si trovano nei territori occupati cerco di mantenere il rapporto personale nella speranza che venga al più presto possibile la pace. Chi non riesci ad abbracciare con le mani lo puoi abbracciare con la preghiera.

Ha citato il caso di padre Ivan Levitskyi e padre Bohdan Heleta, incarcerati dai soldati russi quasi un anno fa per essere rimasti a svolgere assistenza pastorale a Berdyansk dopo l'occupazione. Ci sono novità sulla loro condizione? 
Il dramma peggiore è che da quasi un anno non abbiamo alcuna notizia da fonti sicure su di loro. Non sappiamo come stanno, dove stanno e se sono ancora vivi. Abbiamo chiesto al Papa di informarsi con il governo russo su come si può fare per aiutarli a rientrare in Ucraina. Lui si è già interessato molte volte al loro caso. Oltre a loro, sono stati cacciati altri quatto sacerdoti nella parte del Donetsk controllata dai russi. L'incarcerazione delle persone che la pensano diversamente dalla Russia è un fattore naturale in quelle terre.

Come supportate spiritualmente i soldati al fronte?
Per i militari è importante sentire la vicinanza di Dio nelle sfide che stanno vivendo. Ogni soldato sa che uccidere è un peccato grave. Perciò ognuno di loro si domanda: "che cosa sto facendo?" È un dramma interiore perché, da una parte, nessuno dei militari ucraini ha voglia uccidere ma dall’altra si ritrova di fronte al dilemma di dover difendere la propria vita, la propria terra e la propria famiglia altrimenti finirà ucciso e finirà uccisa la sua famiglia. Quindi dà grande conforto sapere che comunque Dio non è lontano da loro, rendersi conto che Dio ci accompagna cercando di convertire il vuoto umano delle persone che stanno nella parte opposta del campo di battaglia. La forza della preghiera è ciò che consente loro di affrontare la morte. Molti soldati, ad esempio, mi raccontano di come la preghiera li aiuti a superare le sfide insuperabili, a sopravvivere ai bombardamenti e agli attacchi del nemico. 

In che modo, invece, riuscite ad aiutare i familiari di chi ha perso qualcuno a causa della guerra?
 Per i genitori perdere un figlio è un dolore che non si può guarire con alcuna attività o parola. Però insieme, si cerca prima di tutto di compattare, comunicare, accompagnare ed aiutare le famiglie dei caduti. In Ucraina si sta sviluppando molto l’associazionismo delle famiglie dei caduti di guerra perché così da una parte cercano di aiutarsi a vicenda capendo i bisogni, dall’altra è più facile parlare di sé e raccontare le storie di padri, mariti, figli che non ci sono più. È un aiuto psicologico che si dà e anche un aiuto spirituale perché il pregare insieme aiuta un po' a toccare la realtà di chi ci ha preceduto nell'eternità.

Lei una volta ha detto che c'è un odore di morte nella vostra terra. Come si rimane umani e cristiani in mezzo a tanto dolore?
Sappiamo dal Vangelo di Giovanni che Dio è verità, è amore. Proprio quell’amore che incoraggia a non farsi abbattere dalla paura e da tutto ciò che cerca di distruggere il nostro popolo. L’amore è più forte di tutto. L'unica forza per andare avanti è solo Dio. Non ho trovato nient’altro che potesse aiutare a non smettere di guardare avanti.