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GRANDE SCHERM

Il cinema contemporaneo davanti all'Aldilà

Gli interessanti casi di Clint Eastwood, Alejandro Gonzàlez Iñárritu e Terrence Malick.

Cultura 07_04_2012
"The Tree of Life" di Terrence Malick

 

Dal nuovo fascicolo del mensile Studi Cattolici, diretto a Milano da Cesare Cavalleri, proponiamo questa riflessione su alcuni aspetti poco pop ma molto alti del cinema contemporaneo.

 

Nel 1978 Warren Beatty diresse e interpretò come protagonista Il Paradiso può attendere. Nel film, un giocatore di football americano, Joe Pendleton, per uno sbaglio del suo «accompagnatore» (una sorta di angelo), viene portato in cielo prima del previsto. In realtà, il posto in cui arriva Joe non è esattamente il paradiso, ma una «stazione di transito» nella quale uomini e donne di età diverse aspettano in fila davanti alla scalinata di un aereo, che li porterà alla loro final destination. Tutti sono in silenzio, seri, nessuno scherza, le cose procedono come previsto, c’è un regolamento ferreo, i funzionari vestono giacca e cravatta, e appare subito chiaro che il nostro Joe è completamente fuori posto. Abbiamo detto che non è il paradiso, ma siamo comunque nell’aldilà. E questo aldilà è un luogo ordinato ma noioso, dove non capita niente di interessante, dove appunto tutto procede come previsto... eternamente. Non viene nessuna voglia di andarci. Ma si tratta di un’iconografia del cielo spesso usata in àmbito cinematografico e in altre rappresentazioni artistiche lungo i secoli. E forse anche la più intuitiva: un posto tranquillo tra le nuvole.

In questa commedia evidentemente funziona. Il paradigma funziona anche in un altro film classico precedente, del 1946, Scala al Paradiso, diretto da Powell e Pressburguer. Qui capita qualcosa di simile al film di Warren Beatty, ma al rovescio. Il capitano Peter Carter (David Niven) doveva morire, invece sopravvive per un errore del suo «conductor» che aveva la missione di portarlo in cielo («conductor» nel doppiaggio all’italiano viene tradotto come «custode», per la sua somiglianza con un angelo, ma in realtà si tratta di un defunto decapitato durante la Rivoluzione francese). Al custode viene ordinato di riparare il suo sbaglio quanto prima, sennonché si trova di fronte a un grosso problema: in quel breve interim, Carter si è innamorato, e ora non vuole più abbandonare la terra. L’aldilà che attende Carter viene raffigurato come una sala d’attesa dove le persone prendono le ali per andare in paradiso. Di nuovo, un posto ordinato dove «c’è più burocrazia che sulla terra», viene esplicitamente detto. Aggiungiamo che sebbene il film sia a colori, tutte le scene dell’aldilà sono in bianco e nero, il che accentua ancora di più il tono grigio del paradiso...

Il film ha un forte significato allegorico, e quello che gli autori vogliono sottolineare è la capacità dell’amore di andare oltre la dimensione temporale della vita. In questo senso, l’amore si identifica con il cielo, è il vero cielo... in terra («L’amore è il paradiso e il paradiso è amore», viene detto alla fine). Ma proprio questa idea si presta, indirettamente, a una connotazione negativa del cielo, quella sorta di habitat neutro dove, ripetiamo, non capita mai niente di interessante, che si cerca di evitare a ogni costo: Joe Pendleton, in Il paradiso può attendere, non voleva andarci perché doveva giocare la Superbowl; e adesso vediamo che nemmeno Carter vuole andarci, perché si è innamorato. I due modelli tutto sommato si somigliano abbastanza e costituiscono una sorta di cliché, che recentemente ha cercato di essere superato da tre importante registi: Eastwood in Hereafter, Iñárritu in Biutiful e Malick in The Tree of Life.

Tutti e tre, dovendo raffigurare l’aldilà, hanno tentato di evitare il luogo comune, offrendo una rappresentazione diversa. Con l’aiuto degli effetti speciali, Eastwood ha optato per far vedere, letteralmente, alcuni flash della vita di oltretomba, mentre gli altri due hanno preferito ricorrere alla metafora. Iñárritu è stato, per così dire, il più semplice e metaforico dei tre, scegliendo un paesaggio bello ma abbastanza normale: un bosco innevato. Da parte sua, Malick, per descrivere il paradiso, ha creato una sequenza lunga e complessa, usando un’iconografia ricca, riprese particolari e scenari naturali molto suggestivi, un insieme difficilmente immaginabile senza le possibilità offerte dalla tecnologia digitale. Cominciamo allora da Hereafter. Ricordiamo che il film (diretto da Eastwood ma sceneggiato da Peter Morgan) parla di persone che vivono un’esperienza dell’aldilà. Concretamente, riescono a vedere dei defunti e a ricevere i loro messaggi. Quando i defunti compaiono nella loro mente, lo fanno per pochi secondi attraverso dei flash nei quali li si vede camminare (quasi si potrebbe dire come anime in pena) su una sorta di sfondo indefinito che somiglia a un deserto o a una spiaggia, in ogni caso una superficie chiara, molto illuminata. Infatti, più che di cielo bisognerebbe parlare di un ambiguo aldilà, in alcuni casi più vicino al purgatorio che al paradiso, a giudicare dalle persone che vi si trovano: alle volte hanno dei rimorsi e implorano di essere perdonate per i propri errori.

L’aldilà di Eastwood-Morgan è un aldilà «laico». In nessun momento del film si prega, né tanto meno viene invocato Dio, il che risulta un po’ sconcertante, perché se si accetta l’esistenza di un’altra vita, si dovrebbe anche accettare l’esistenza di Qualcuno che ridà la vita. Invece, il film omette questo passaggio, restando in una prospettiva puramente fenomenologica: ci sono delle persone che inspiegabilmente riescono a comunicare con i morti, quindi c’è un aldilà. Eppure, la pellicola costituisce una bella testimonianza dell’anelito umano a proseguire la vita dopo la morte. E nel tentativo a-religioso di descrivere l’aldilà, si possono riscontrare dei tratti che manifestano una certa influenza cristiana. Abbiamo già fatto allusione ai pentiti che sperano di essere perdonati, ma ecco come questo aldilà viene descritto dal protagonista (Matt Damon), quando trasmette a un ragazzino quello che il suo defunto gemello gli sta raccontando: «Tu non puoi immaginare com’è lì. Dice che puoi essere allo stesso tempo tutte le cose. C’è assenza di gravità. Dice che è fico... ora sta ridendo».

Diamo ora un’occhiata al paradiso di Inárritu. Ricordiamo che Biutiful inizia in un bosco innevato. Poi c’è un flashback, comincia la storia, che si conclude con la stessa scena dell’inizio... soltanto che adesso, vedendola alla luce di quanto è successo, capiamo che il protagonista, Uxbal (Javier Bardem) è morto e quindi in realtà non siamo in un bosco innevato, ma proprio in paradiso, raffigurato come un bosco innevato. In questo paradiso Uxbal si trova con suo padre, che è più giovane di lui perché era morto quando aveva circa trent’anni, e che Uxbal non aveva mai incontrato in vita (anche se aveva visto il suo cadavere e un paio di fotografie). Si scambiano delle frasi, apparentemente banali ma all’interno del film molto significative perché sono frasi di dialoghi avuti da Uxbal con i suoi figli... e quindi in questo modo Uxbal capisce che suo padre gli è stato sempre vicino, anche se era morto. Scherzano, ridono. Subito si stabilisce un rapporto molto emotivo tra i due, fiducioso, di complicità, sottolineato dalla musica del concerto di piano in G di Ravel. Si avvicinano e si accendono una sigaretta. Il padre sposta lo sguardo e comincia ad allontanarsi verso un angolo fuori dal nostro campo visivo, e Uxbal incuriosito gli domanda: «Che c’è lì?». Inquadratura di pochi secondi di un pezzo di bosco innevato, e poi fine, con dissolvenza in nero seguita dalla dedica, molto sentita: «A mi hermoso y viejo roble... Héctor González Gama, mi padre». La scena contrasta con il resto del film, intenso ma dominato dallo squallore, crudo e purtroppo per niente contenuto in un paio di scene di nudo. Ma oltre a questo difetto, bisogna riconoscere che Iñárritu si avvicina all’aldilà con un atteggiamento sommamente rispettoso. Sceglie un paesaggio naturale, bello e pieno di pace. Ci mostra come dopo la morte sia possibile incontrare di nuovo i nostri cari, partiti prima di noi. E come la pace non appartenga soltanto al luogo, ma sopratutto alle persone, quando si sono finalmente liberate delle loro angosce mondane, recuperando la voglia di ridere e scherzare. Ci fa intravedere che in paradiso, argomento di cui possiamo permetterci di parlare soltanto metaforicamente, c’è qualcosa di definitivamente migliore che non conosciamo, ma che possiamo comunque intuire.

E così arriviamo dunque allo stupefacente film di Malick, definito da tanti come un vero e proprio inno alla vita. Verso la fine del film, ritornando alla sua infanzia e seguendo i passi di un angelo (raffigurato come una giovane dalla veste fluttuante), il Jack adulto (Sean Penn) si trova davanti a una porta in mezzo a un deserto roccioso. Varca la soglia e c’è una dissolvenza in nero. L’attraversamento della porta può essere visto come il momento della volontà, nell’atto di fede. La grazia richiede sempre una corrispondenza libera. Attraversando la porta, Jack si fida, e fidandosi entra in un mondo nuovo. Alla dissolvenza in nero seguono delle immagini che ricordano la creazione e suggeriscono una trasformazione o rinnovamento dell’universo, mentre la voce fuori campo di Jack prega Dio dicendo: «Keep us... guide us... to the end of the time». È chiaro quindi che stiamo entrando in una nuova dimensione, aldilà del tempo e dello spazio come li conosciamo. Che questa «realtà alternativa» (come veniva definita, in un’intervista, dalla produttrice del film) sia il paradiso cristiano, quello che comunemente viene chiamato «cielo», ci sembra abbastanza ovvio, sia per la presenza di elementi iconografici specificamente cristiani sia per il profondo senso dell’insieme. Si accendono candele (liturgia della luce, propria della Domenica di Risurrezione, con catecumeno incluso) e si spalancano le porte verso la luce, mentre si inizia a sentire il dolce coro dell’Agnus Dei dal Requiem di Berlioz: «Agnus Dei qui tollis peccata mundi...». Si aprono più porte, gli angeli (ancora le giovani dai lunghi capelli sciolti e vesti fluttuanti) tendono le mani, c’è una scala che porta dritta in cielo, Jack entra nel buio di una chiesa, una donna vestita da sposa viene letteralmente risuscitata... e finalmente Jack arriva in un braccio di spiaggia circondata dal mare e cade in ginocchio. Penso che non sia esagerato dire che è stato rapito in cielo, come san Paolo. Sulla spiaggia, le persone passeggiano da sole o in piccoli gruppi. C’è tanta acqua, e vento, e luce. Jack si fonde in un abbraccio con sua madre. E poi passeggia con suo padre in perfetta armonia.

Ritrova il suo defunto fratello e lo porta dai suoi. La madre prende la mano di una vecchia signora per baciarla e questa mano si trasforma nella mano di una giovane, sottolineando ancora il nuovo modo di vita con una corporeità e una identità non legate alle leggi spazio-temporali. Vediamo alcuni dei personaggi trovati lungo il film. Il paesaggio è di una bellezza inusuale; il mondo è un mondo trasformato. Non c’è fretta, regna la calma. Le persone si abbracciano, stanno insieme, contemplano. Non è un posto noioso, una sala d’attesa. È piuttosto una ricreazione, un momento di pienezza, l’evocazione di quei momenti della vita in cui si gode così intensamente di un istante da voler fermare il tempo. Il momento in cui le lacrime vengono finalmente asciugate (il volto triste della madre torna allegro e raggiante quando ritrova suo figlio). A un certo punto si apre una porta sotto l’acqua, c’è un tramonto, e siamo in uno scenario diverso, ancora più luminoso di prima: un deserto di sale. Una maschera cade, sprofondando nell’acqua (simbolo esplicito del vedere le cose come sono, del vedere gli altri e mostrarsi ognuno con la sua vera e autentica identità, senza maschere). Il fratellino defunto gioca sotto lo sguardo della madre, a sua volta osservata da Jack adulto. In una luce abbagliante (la luce della Gloria, che trasforma tutto), guardando verso l’alto, la madre - la signora O’Brien -, circondata da due angeli, fa con le mani il gesto dell’offerta mentre dice: «I give it to you, I give you my son».

Come se avesse capito che tutto è dono di Dio, che niente ci appartiene e niente si perde quando sappiamo abbandonare tutto nelle sue mani. Che il dono è la risposta che scaturisce naturalmente dalla gratitudine. E in coincidenza dell’Amen di Berlioz, torniamo al campo di girasoli dell’inizio del film. Siamo di nuovo sulla terra, nella città moderna. L’adulto Jack ora scende in ascensore. Esce dei grattacieli, stordito. E per la prima volta nel film, abbozza un discreto ma autentico sorriso. A continuazione, l’ultima inquadratura mostra significativamente un ponte che sembra unire cielo e terra (prima di tornare all’immagine dei colori su sfondo nero, una specie di clavilux3 naturale che aveva aperto il film). E Dio dov’è?, possiamo domandarci. Se l’essenza del paradiso cristiano è la visione beatifica, l’incontro con nostro Padre Dio... dove si trova Lui, in queste rappresentazioni? È possibile raffigurare Dio? Nella storia dell’arte i tentativi non sono mancati. Alcuni modelli hanno goduto di grande successo e diffusione, forse per la loro innegabile efficacia per certi scopi; pensiamo per esempio al simbolo dell’occhio chiuso in un triangolo (metafora dell’onnipotenza e onnipresenza divina) oppure all’anziano della barba bianca (simbolo della eterna saggezza). Ma è normale che in diversi àmbiti, dalla pittura alla letteratura al cinema, gli artisti continuino a cercare nuove forme di rappresentazione della sua presenza. Se ci atteniamo ai tre esempi cinematografici qui esaminati, costatiamo che nei primi due Dio non c’è (comprensibile, forse, per il tipo di film e la funzione quasi puramente strumentale del paradiso all’interno della storia; oltre al fatto che in realtà, come abbiamo spiegato, il luogo che vediamo in entrambi i film non sarebbe propriamente il paradiso, ma piuttosto una stazione di transito o un’anticamera del cielo, sebbene i due film preferiscano non chiarire del tutto questo aspetto e lascino lo spettatore nell’ambiguità). Dio non c’è nemmeno, per ovvie ragioni, nell’a-religioso aldilà di Eastwood. Nel film di Iñárritu invece, sebbene non compaia, c’è lo spazio per Lui.

La pellicola infatti finisce con la domanda di Uxbal - «Che c’è lì?» - e il suo sguardo verso un luogo fuori del nostro campo visivo... puntando quindi a una realtà ancora da scoprire. E che dire della pellicola di Malick? Nella sua recensione per La Civiltà Cattolica, padre Virgilio Fantucci parlava del sole come di un personaggio del film, se non addirittura il suo protagonista, visto che si tratta di un film nel quale la luce naturale domina sovrana, e nel quale - aggiungiamo noi - non mancano le riprese dirette e insistite del sole, soprattutto nella sequenza finale che abbiamo descritto, nella quale da Jack adulto che attraversa la porta fino alla signora O’Brien che cammina graziosamente nel deserto di sale, tutti sembrano incamminarsi verso il sole, attirati da lui. Quindi, non si potrebbe dire che il sole che inonda tutto con la sua luce - e che in questo paradiso trasfigura la realtà - è l’immagine di Dio onnipresente? Altri hanno individuato la rappresentazione di Dio nel menzionato clavilux naturale che compare in diversi momenti. Compare al principio, dopo i versetti del Libro di Giobbe, mentre vengono pronunziate le prime battute del film, quelle di Jack adulto che dice: «Brother... Mother... It was them to lead me to your door», come se fosse appunto il clavilux ad accogliere le prime parole della sua lunga meditazione. Ma il clavilux naturale e roccioso compare di nuovo all’inizio della sequenza del paradiso, unito alla porta, e anche - come abbiamo detto - alla fine del film. Dio alfa e omega. Quindi un’interpretazione plausibile. Ma non cambia tanto, siamo comunque lì, sempre nella luce. Dio come luce. Senza dimenticare che queste sono soltanto delle ipotesi. Bisogna riconoscere che non è facile rappresentare l’aldilà e tanto meno Dio. Infatti, di fronte all’ambizioso tentativo portato avanti da Malick magari pensiamo che non tutto quadra, nella sua visione del paradiso. Che manca un nesso logico-razionale in alcune parti, che certe immagini o simboli sono difficilmente decifrabili oppure sembrano aprirsi a un’infinità di interpretazioni. Ma è bene che sia così. Malick riesce a farci percepire il mistero senza snaturarlo. Il mistero resta mistero. «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano».